Black lives matter: negli Usa esiste davvero un problema di razzismo?

Ci sono già stati, negli Usa, momenti di protesta da parte della comunità afroamericana per le violenze della polizia e per il clima razzista che pervaderebbe la società statunitense. Il movimento che sta oggi dilagando negli Usa si distingue però dai precedenti per violenza, intensità, coinvolgimento e durata. La morte di George Floyd per asfissia durante un arresto ha scatenato la protesta, che si è fatta via via più intensa man mano che nuovi episodi di violenza contro afroamericani sono emersi, portando ad una situazione di rivolta, che porta sovente allo scontro violento fra i sostenitori delle rivendicazioni degli afroamericani e le fazioni opposte, che i giornali spesso identificano come suprematisti bianchi o, senza mezzi termini, razzisti.

Un clima surriscaldato dalla pandemia

Che cosa ha determinato l’esplosione ma soprattutto la continuazione delle violenze? Rispondere a questa domanda richiede un’analisi approfondita, che guardi non soltanto all’evento scatenante, cioè la morte di Floyd, ma anche alla situazione socio-economica in cui tale evento si inserisce: la morte di Floyd è avvenuta in un contesto già surriscaldato dalle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria e dalle conseguenze, specialmente economiche, della stessa: le fasce più povere, già sofferenti prima dell’ergenza da coronavirus, sono quelle che hanno maggiormente risentito, perlomeno in un primo tempo, dell’aumento di disoccupazione e della povertà determinato dal reflusso economico dovuto alla pandemia. Non c’è dubbio che questo fatto abbia ulteriormente alimentato i vari movimenti antirazzisti che già caratterizzavano determinati ambienti. La pandemia ha creato una miscela esplosiva e la morte di Floyd è stata la fiamma che ha causato l’esplosione. Certamente, stupisce la coordinazione che ha guidato queste proteste: se prima le proteste erano locali o, comunque, la violenza di strada colpiva solamente specifiche città (e per pochi giorni), adesso le violenze si manifestano in diversi stati e l’attività dei manifestanti è particolarmente coordinata. Come si sia passati da esplosioni disomogenee di rabbia a una protesta così sistematica resta un mistero.

L’argomento dei sostenitori del movimento Black Lives Matter è comunque abbastanza chiaro: negli Usa ci sarebbe una grande discriminazione, un odio razziale che colpisce soprattutto gli afroamericani e che si manifesta nel modo più chiaro nell’atteggiamento dei membri delle forze dell’ordine nei confronti degli afroamericani. La polizia viene accusata di continui abusi di potere, di gravità tale da determinare, spesso, la morte delle persone arrestate, abusi che, negli ultimi tempi, vengono resi pubblici grazie a video girati con cellulari e poi caricati sulla rete e diffusi dai network televisivi di tutto il mondo. L’argomento “antirazzista” non può che essere rinforzato da questi video: la brutalità delle azioni mostrate nelle riprese è tale da indurre chiunque a comprendere la rivolta e addirittura giustificare, in certi casi, l’uso della violenza come strumento di protesta. La reazione “di pancia”, insomma, è di simpatia nei confronti delle proteste. Si sa, però, che le reazioni emotive sono pericolose, perché impediscono di cogliere i fenomeni nella loro complessità e, allo stesso tempo, di affrontare i problemi con uno spiriti critico e costruttivo. E ciò è vero anche in questo caso. Sì, perché è sufficiente riflettere per poter individuare alcuni punti che indeboliscono l’argomento. Fermo restando che gli abusi compiuti da parte della polizia sono da condannare nella maniera più ferma, vi sono nondimeno alcune considerazioni che devono essere fatte.

Negli Usa esiste davvero un problema di razzismo?

Una prima osservazione riguarda la denunciata assenza di parità fra bianchi e afroamericani negli Usa. La denuncia è che gli afroamericani sarebbero discriminati, trattati come cittadini di serie B ed emarginati, al punto da non poter avere accesso a certi tipi di carriera e a certi percorsi formativi. Questa denuncia, gridata a gran voce, si scontra però con alcuni fatti innegabili, evidenti a chiunque conosca anche poco la società americana. Per quanto riguarda la formazione, non si può certo negare che manchino le attenzioni per garantire la parità di istruzione: se guardiamo ai corsi di specializzazione nelle università, ai master e ai dottorati, per esempio, riscontriamo che, negli Usa così come in Europa, vi sono regolamenti che garantisono le pari opportunità. E se guardiamo alla professioni e alle carriere, non mancano certo, negli Usa, personaggi illustri afroamericani: cariche importanti sono ricoperte da afroamericani, come dimostrano, nel modo più palese, Barak Obama e la candidata alla vicepresidenza dei democratici, Kamala Harris. Si dirà – e viene detto – che si tratta di una minoranza: forse è vero, ma si può rispondere ponendosi una domanda: se gli Usa fossero così razzisti come alcuni vogliono far credere, sarebbe mai possibile per due afroamericani raggiungere la carica di presidente e di candidata vicepresidente, cioè le due cariche più importanti della politica statunitense (e, di converso, mondiale)?

La seconda osservazione riguarda la peculiarità del razzismo statunitense. Si noti che la protesta “antirazzista” è sostenuta dagli afroamericani, non dai membri di altre etnie. Eppure, non mancano certo altre etnie negli Usa, né mancano sentimenti di fastidio nei confronti di esse (si vada a chiedere a certi statunitensi come considerano i messicani o i cubani). Perché, allora, queste non mettono a ferro e fuoco le vie e le piazze? Perché non si sente di rivolte della comunità messicana, cinese o cubana? Una possibile risposta è che non ci sono le condizioni per una rivolta organizzata di queste comunità: al contrario della comunità afroamericana, che si è costruita nel corso dei decenni un’identità precisa e che ha preso coscienza dei propri diritti già a partire dal secondo dopoguerra (grazie a figure come Martin Luther King e Malcolm X), le altre comunità mancano di figure di riferimento e di un’identità precisa. Che sia così, però, è da dimostrare: forse è vero che, nella comunità cinese o messicana statunitense, non esiste un corrispettivo di Martin Luther King o Malcolm X, ma si può fortemente dubitare che i membri di tali comunità manchino di un’identità precisa e di un autentico senso di appartenenza. Questi riscontri, lungi dal giustificare gli atti compiuti dalla polizia, permettono di sottolineare ancora una volta la complessità del fenomeno a cui si sta assistendo, un fenomeno che sembra avere radici più profonde e misteriose di ciò che si pensa.

Stupisce, infine, l’atteggiamento della polizia. Dopo il video denuncia sulla morte di Floyd, la polizia si è ritrovata “al centro del mirino”, con i fari puntati addosso. Eppure, dall’inizio delle proteste, i video che mostrano abusi da parte della polizia sono aumentati. Questo è un paradosso, va contro alla ragionevolezza. Ammettiamo pure che alcuni membri della polizia covino sentimenti razzisti: è mai possibile che in un momento come questo queste persone decidano di agire in modo così violento sotto gli occhi di tutti? Perché gli agenti dovrebbero gettarsi volontariamente nel fuoco, agendo in questo modo davanti alla telecamera di un cellulare? Agire in tal modo vuol dire sì fare del male, ma anche farsene; e molto. Chi agisce così? Un esibizionista, forse, oppure uno che si crede un martire oppure, ancora, un masochista, oppure qualcuno che ha o che crede di ricavare qualche vantaggio dall’agire così. Capire quale sia questo vantaggio è, almeno di primo acchito, un’impresa ardua. Insomma, la situazione è molto complessa. Più di quanto si creda.

Edoardo Santelli

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.