La nuova sfida di Trump è la pace in Afghanistan “Mai stata così vicina”
È il Golfo, arabico o persico che dir si voglia, il teatro privilegiato dell’azione diplomatica americana in questi mesi finali della (prima?) presidenza Trump.
Dopo aver raccolto i frutti maturi del clamoroso avvicinamento a Israele degli Emirati Arabi Uniti prima e del Bahrein poi, il segretario di Stato Mike Pompeo è sbarcato ieri in Qatar per sottolineare il suo ruolo di regista nei colloqui di pace che lì si sono aperti tra il governo dell’Afghanistan e i talebani: e anche qui spera, e con lui l’uomo della Casa Bianca, in un raccolto abbondante che magari possa ottenere anche la desiderata ricaduta di un guizzo verso l’alto per i sondaggi elettorali del presidente degli Stati Uniti.
A Doha si respira un ostentato clima di ottimismo, che Pompeo ha accentuato dicendosi convinto che «mai come oggi le possibilità di pace in Afghanistan sono state così alte». In verità tutte le parti coinvolte il governo di Kabul sostenuto dall’Occidente, le milizie ultra islamiche che da quasi vent’anni lo combattono, americani, europei e ospiti arabi spendono parole positive, all’insegna del «se non ora, quando?». L’opportunità che Pompeo esorta a cogliere richiede però una reale pacificazione sul campo, e questa appare lontana, se è vero come è vero che il capo dell’Alto consiglio afgano per la riconciliazione nazionale Abdullah Abdullah ha dovuto chiedere per l’occasione un cessate il fuoco umanitario. Quel cessate il fuoco che i talebani mai hanno voluto realmente concedere, nemmeno in occasione, lo scorso 29 febbraio sempre in Qatar, della firma dell’intesa con gli americani per l’avvio di un sostanziale ritiro del loro contingente militare.
Mentre a Doha si parla di una storica pacificazione, dunque, in Afghanistan le armi non tacciono. E anche restando sul più tranquillo piano della diplomazia, un’attenta lettura delle dichiarazioni dei capidelegazione afgani fa risaltare differenze che rimangono talmente profonde da far dubitare della reale possibilità che parti così distanti possano addivenire a una pace sincera, e meno che mai condividere un progetto comune di società. Se infatti Abdullah sceglie toni moderni e di apertura quando afferma di mirare alla fine della guerra fratricida per «trasformare l’Afghanistan in un centro regionale di connettività», il capo dell’ufficio politico dei talebani che tra l’altro è suo fratello preferisce insistere sulle caratteristiche islamiche che il Paese pacificato dovrà esaltare, con tanto di applicazione della Sharia. E se è facile credergli quando sostiene di puntare a un Afghanistan «indipendente» (cioè senza soldati occidentali tra i piedi), lo è assai meno quando promette sviluppo, unità e uguaglianza senza pregiudizi per tutti i cittadini sottolineando la comune appartenenza all’islam: perché è certamente vero che quasi la totalità degli afgani sono musulmani, ma l’interpretazione dell’islam che i talebani pretendono di imporre è il contrario perfetto della modernità ed è certamente sgradita almeno ai settori più istruiti della società.
Nessuno, comunque, ha interesse a mostrare che l’imperatore è nudo. Ai talebani conviene fingere (ma senza esagerare) di esser disposti al compromesso nell’interesse nazionale, e al governo di Kabul di star facendo il massimo per conseguire l’agognata pace. Ma è soprattutto Donald Trump a compiacersi del clima di ottimismo diffuso a Doha: un’improbabile intesa afgana gli farebbe naturalmente gioco, ma intanto le immagini del rimpatrio dei soldati a stelle strisce gli gioveranno nella battaglia che più gli sta a cuore: quella contro «Slow Joe» Biden.
il giornale.it