Pakistan, altro cristiano condannato a morte per blasfemia
Ancora una condanna inflitta ad un cristiano per blasfemia. Ancora un episodio avvenuto in Pakistan, dove le riforme giuridiche stentano a decollare.
La novità, come spesso accade in queste circostanze, è stata rivelata dal legale della persona che è incappata nella sentenza.
Ad emetterla è stato un tribunale di Lahore. Un episodio datato 2013, che è balzato agli onori delle cronache per via del contenuto della disposizione dei giudici. Asif Pervaiz – questo il nome della persona condannata – ha meno di quarant’anni e, ormai sette anni fa, si sarebbe rivolto con parole considerate “blasfeme” ad un suo superiore, in un contesto lavorativo. La “blasfemia” – com’era accaduto ad Asia Bibi – viene spesso interpretata in relazione all’islam ed al rispetto che quella confessione religiosa prevede di dover avere secondo le leggi della sharia. L’islam è la religione che Asif dovrebbe aver offeso secondo le autorità pakistane. La stessa alla quale magari avrebbero voluto che si convertisse.
Proprio qualche giorno fa, Asia Bibi, che è un simbolo della resistenza cristiana in un contesto dove le minoranze religiose non vengono tutelate a dovere, aveva domandato alla sua nazione d’origine di adottare al più presto riforme: “Oggi ci sono alcuni gruppi che usano le leggi esistenti ed io faccio appello al Primo Ministro del Pakistan specialmente per le vittime della legge sulla blasfemia e per le ragazze convertite con la forza, perché tuteli e protegga le minoranze che sono anch’esse pakistane”, ha detto la Bibi, attraverso un’intervista, ad Aiuto alla Chiesa che Soffre. Il problema, come dimostra la storia del trentasettenne, è attuale. E anche la vicenda del giovane pakistano, peraltro, potrebbe essere interessata da una “conversione forzata” o comunque da un tentativo di procedere in quella direzione. Così come spesso accade in relazione alle “spose bambine”, che vengono dapprima rapite, poi appunto “convertite” ed infine sposate dai loro rapitori.
L’urgenza riformistica sollevata da Asia Bibi vale dunque anche per Asif, che non avrebbe abbassato il capo quando gli sarebbe stato chiesto di convertirsi alla religione musulmana. Una richiesta, si apprende da quanto ripercorso dal suo avvocato e da quanto registrato dall’Adnkronos, che sarebbe stata fatta da un “supervisore” della fabbrica in cui Pervaiz lavorava, un’industria di calze. “colpevole” ha ovviamente declinato ogni responsabilità a suo carico: “L’imputato ha negato le accuse e ha detto che quest’uomo stava cercando di convincerlo a convertirsi all’Islam”, ha fatto sapere l’avvocato. Le acredini ci sarebbero state, in realtà, per via della mancata accettazione di un’indicazione precisa: una conversione all’islam che Asif, secondo la sua versione, avrebbe dovuto assecondare senza colpo ferire. Ma il Pakistan, oltre ad essere teatro di persecuzione ai danni di cristiani a volte, è anche il luogo da cui provengono storie centrate sulla libertà rivendicata dai singoli individui. Asif, che non si è convertito, è adesso un condannato.
La pena, in casi come questi, si può diramare in due direzioni: la morte, che è poi l’effetto imposto a Asif per la presunta blasfemia, e l’ergastolo. Anche per questo Asia Bibi ha chiesto al Pakistan di adottare riforme: “Al momento della fondazione e della separazione del Pakistan dall’India il fondatore Ali Jinnah, nel suo discorso di apertura, ha garantito libertà religiosa e di pensiero a tutti i cittadini”, ha tuonato nell’intervista sopracitata la donna che ora dovrebbe trovarsi in Canada. Ma il Pakistan non sembra troppo disposto ad accelerare, e la legge sulla blasfemia continua ad essere presa in considerazione dagli organi giudicanti nel corso dei processi.
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