Coronavirus, il vaccino italiano? Non abbiamo malati abbastanza gravi per testarlo: servono “cavie” dal Sudamerica
La dichiarazione è passata sottotraccia. Molti l’hanno censurata. La stampa filogovernativa, così attenta a riportare il bollettino dei morti e dei contagiati, puntuale nel riferire le previsioni catastrofiche dei virologi asserviti a Palazzo Chigi, ha ignorato quanto detto da Francesco Vaia, direttore sanitario dell’ospedale “Spallanzani” di Roma, centro di riferimento per la sperimentazione del vaccino italiano anti-Covid. «In Italia, al di là di quello che si dice, non c’è questa catastrofe, non abbiamo tutti questi pazienti e tutti questi malati, dunque la seconda e terza fase di sperimentazione la faremo in un altro Paese, penso al Sud America, dove invece il virus è in una fase di crescita». Il messaggio è inequivocabile: in Italia, fortunatamente, non ci sono abbastanza malati gravi, e il Covid non è più quello di prima. Non lo diciamo noi, ma chi ha affrontato l’emergenza in prima linea. È una notizia piuttosto rilevante, ma abbiamo dovuto faticare per recuperarla sul web, dove comunque è tuttora inesistente sui siti dei principali giornali amici della Casalino Associati. Abbiamo dovuto scartabellare Google andando indietro di due settimane, fino al 24 agosto.
Era il giorno in cui il capo Dem e governatore del Lazio Nicola Zingaretti, prendendo la parola prima di Vaia, aveva annunciato urbi et orbi – lodando l’operato del governo – che allo Spallanzani era stata inoculata la prima dose di vaccino a un volontario. Un fatto incoraggiante che meritava di essere riferito con dovizia di particolari, com’ è accaduto. Peccato che per trovare gli altri volontari, e ne serviranno parecchi per testare il siero, i nostri specialisti forse dovranno andare a Copacabana, nella Pampa, sul Machu Picchu. Questo nessuno lo ha detto né scritto. Chiariamo: il direttore dello Spallanzani non ha affermato che l’epidemia è solo un brutto ricordo, che il virus oggi ci fa al massimo il solletico e che possiamo tornare in tutto e per tutto alla vita di prima. Però ha fornito un’informazione che dovrebbe riportare tutti alla realtà. Peraltro, qualche settimana prima, uno degli scienziati di Oxford che stanno lavorando al vaccino assieme all’Advent Irbm di Pomezia, aveva detto cose simili: «È una corsa contro il tempo e anche contro il rischio che il virus scompaia. Ci troviamo in una situazione paradossale: dobbiamo sperare che il Covid resista almeno un altro po’». Non ricordiamo titoloni nemmeno in questa circostanza.
Ieri, ospite d’onore alla festa del Fatto Quotidiano – e dove sennò? – Giuseppe Conte ha ricordato che «l’Italia è tra i primi Paesi Ue a partecipare ai più significativi progetti di ricerca». Dubitiamo che il merito sia dell’avvocato di Volturara Appula. In Francia, intanto, Olivier Bogillot, presidente di Sanofi Francia, ha annunciato che il siero costerà meno di 10 euro a dose: «I connazionali e gli europei lo avranno contemporaneamente ai pazienti americani» ha assicurato, spiegando che gli Stati Uniti avranno circa 100 milioni di dosi, gli europei 300 milioni e la Gran Bretagna 60 milioni. Il ministro della Salute, Olivier Véran, spera nella messa a punto del vaccino entro fino anno, «al massimo in primavera». L’azienda anglo-svedese AstraZeneca ha invece già ufficializzato il prezzo: 2 euro e 50 a dose. I media americani ieri hanno informato che le grandi case farmaceutiche statunitensi, per scongiurare il rischio che la caccia al primato nella produzione del siero metta in pericolo la salute delle persone, stanno definendo un documento in cui si impegnano pubblicamente a non chiedere l’approvazione del vaccino ai governi fino a quando non saranno certe della totale sicurezza dei propri prodotti. Tra le società firmatarie ci sarebbero Pfizer, Moderna, Johnson&Johnson, GlaxoSmithKline e Sanofi. Una parte degli americani è scettica sull’efficacia del vaccino proprio per la corsa sfrenata all’antidoto da parte dei colossi della medicina.