Ecco le mie notti feroci dentro i campi rom: “Reddito di cittadinanza? Ce l’hanno quasi tutti”
È stato quando siamo usciti dal campo per andare in delegazione al summit sull’Ostiense che ho visto gli occhi della gente. Avrebbero potuto essere i miei occhi, ma io su quel bus – mentre si procedeva su via di Monte Cucco, via Monte delle Capre e attraverso il quartiere Trullo fino alla Magliana – stavo insieme a Ion, Fata, Edmund e Sori, si parlava tra di noi condividendo due tranci di pizza, e gli altri passeggeri ci squadravano, noi zingari, con quello sguardo che non avevo mai incrociato prima: non proprio ostile, ma schifato e diffidente.
D’altronde anch’io, nei giorni e soprattutto nelle notti trascorsi nel campo, più che con le pantegane ho convissuto col pregiudizio. Non solo il mio, ma anche quello, feroce, che regna tra tutti loro; proprio come accadeva nel popolo dell’abisso dell’East End nell’Ottocento, negli slums e le baraccopoli della periferia romana c’è sempre qualche miserabile di cui sentirsi migliore.
Già nelle prime ore, durante la lunga trattativa per essere accettato, il «zingar grande», il capo romeno, mi dice di fare attenzione a «quelli là, i bosniaci». Li chiama «nomadi», con disprezzo, anche se stanno nel campo da dieci anni. «Sono sporchi, hanno le infezioni. Di notte sniffano per fare le rapine, vanno nel bosco a nascondere roba. Questo era un giardino prima che Alemanno ce li portasse qui dal Casilino, sono falsi, gente diversa. Avremmo dovuto fare come gli italiani con noi, ribellarci».
Una spianata a «elle» fa da confine, divide le baracche e i container dei rom romeni, provenienti in gran parte da Craiova, dalle roulotte degli ex jugoslavi, soprattutto di Zenica e la Bosnia centrale. Io abito con Ghika e T., una coppia sulla sessantina, in un container che sta nella terra di mezzo. Infatti sono «mezzosangue», come si definiscono, ma originari anche loro da Craiova. Ghika suona la chitarra elettrica nella metro e per strada, mostra il permesso. «Sono in Italia da 15 anni e non ho mai visto un commissariato da dentro», ci tiene a dire. Fino a due anni fa guadagnava anche 50 euro al giorno, oggi mai più di 25: «C’era rispetto, la gente era più gentile. Quel poco arriva dai turisti, gli italiani sono sempre più poveri». M. ai primi tempi ha provato a chiedere la carità, «ma la vergogna era troppo grande», qualche volta segue Ghika e fa la «chetta» col bicchiere di carta.
La sera si parla fino a tardi, l’odore della plastica che brucia nei bidoni dei falò entra anche se è tutto chiuso con i nastri adesivi, le parole sono interrotte dal continuo tossire. «Siamo diventati zingari perché non c’era più niente», dice la signora. Racconta che in Romania gestiva una pasticceria, aveva cinque dipendenti. Poi il primo marito ha ucciso un ragazzo e lei per fargli ridurre la pena ha impegnato quel che aveva, poi tutto è precipitato, «le lacrime salavano la minestra, ma ho trovato Ghika». «Mia figlia – dice – abita a Bologna, non sa che siamo diventati zingari, quando vado a trovarla mi faccio bella». Spiega che loro sono gli emarginati del campo, perché non appartengono a nessun gruppo. Vivono della chitarra di Ghika, non hanno nemmeno il fornelletto da campo e per cucinare, possono contare solo sull’aiuto di T., la vicina «slava» che fa campare cinque figli e il marito con il suo stipendio di un grande punto vendita alimentare. Anche T. abita in un container nella terra di nessuno, si è emancipata da «quelli delle roulotte», ma non vuole stare tra i romeni perché «parlano male dei bosniaci e fanno la spia alla polizia, ma i loro figli per difendersi a scuola devono chiedere aiuto ai nostri». «Al lavoro non sanno che sono zingara sennò non mi assumevano, e li capisco», mi dice una mattina presto mentre prende il caffè con le testimoni di Geova, due ragazze sui vent’anni che passano ogni giorno, conoscono tutti ed entrano con il sorriso anche nelle roulotte dove non si avventura nessuno, nemmeno i poliziotti quando fanno il giro per l’appello dei 25 assegnati ai domiciliari (nell’ultimo blitz nei 120 nuclei abitativi l’anno scorso sono state sequestrate dieci pistole, 50 armi da taglio, attrezzi da scasso, 30mila euro in banconote e divise del personale Aeroporti di Roma). «Non possiamo vivere tra di noi nel campo, come puoi pensare di mettere una famiglia rom in un condominio d’italiani? Vuole dire cercare la guerra», dice T.
Per squarciare la coltre d’ipocrisia ideologica e di demagogia sovranista creatasi intorno al «fattore rom», bisogna entrare nella pancia del campo, condividerne l’intimità fetida delle notti, quando anche la luna sembra diversa dalla nostra. Con il buio tra le baracche si sciolgono le reticenze e la realtà appare ancor più spietata. Raccontano di come tutto è cambiato con il presidio h24 della polizia municipale che ha posto un checkpoint all’ingresso e controlla i documenti e fa aprire i cofani. «La situazione sta esplodendo, non ci fanno più entrare le cose che raccogliamo nella gunnaie, la spazzatura, non sappiamo più dove portare il ferro. Ovvio che poi aumentano le rapine e i furti, qui il 90 per cento di noi è fuorilegge. Non possiamo vivere in questo lager, ma nemmeno vicino agli italiani, e non possiamo tornare in Romania o in Bosnia», dice Narad, che ogni tanto fa l’interprete nelle questure del Lazio.
Spiega che oltre la metà dei nuclei del campo ha già ottenuto o otterrà il reddito di cittadinanza (il Caf me l’ha confermato) e che alcuni ne hanno diritto anche se guadagnano migliaia di euro al mese. Nicola ha 30 anni e 15 figli, è partita Iva, possiede due furgoni e confessa di ricavare circa ottomila euro al mese dalla raccolta e commercio del ferro, ma non fattura e non dichiara per mantenere l’Isee a zero e non perdere i vantaggi sociali, infatti tra bonus bebè, le maternità della moglie, il reddito di cittadinanza (e prima quello d’inclusione) incassa quasi 15mila euro l’anno, oltre l’esenzione ticket per i nullatenenti e il trasporto scolastico gratuito.
Una sera il «zingar grande» convoca tutti al centro della spianata, annuncia che il giorno dopo ci sarà un vertice tra i rappresentanti dei campi per «scrivere un documento unitario da spedire alla sindaca Raggi». «Dobbiamo essere tre romeni e tre jugoslavi», dice. Ma sull’autobus «gli altri» non ci sono e i romeni vanno all’attacco: «Per causa loro i campi sono diventati la maledizione di Roma, siamo diventati merce politica per i razzisti e per gli antirazzisti».
Il vertice presso la Comunità cristiana di base San Paolo sull’Ostiense è la prova perfetta di ciò che si muove intorno al «fattore Rom», infatti ai dodici rappresentanti riuniti in cerchio nella grande stanza viene letto un documento politico già preparato dallo staff del deputato e consigliere comunale Stefano Fassina – «noi Rom di Roma riuniti in assemblea vogliamo presentare il nostro punto di vista sulla situazione complessiva da noi vissuta…» e solo da firmare. I rom fanno la fila, si chinano sul tavolino ed eseguono.
«Torniamo a casa», ci ha detto a un certo punto il «zingar grande».
il giornale.it