I buonisti vogliono schedarci: il razzismo è solo una scusa
Nel 1963, Hannah Arendt ci metteva in guardia sulla banalità del male nel suo celebre saggio. Se oggi la filosofa tedesca fosse viva, probabilmente constaterebbe come fondamentali battaglie di civiltà tra cui il contrasto al razzismo, si siano ridotte a uno svilente teatrino dell’assurdo con la volontà di cancellare la storia, promuovere una caccia alle streghe e rilanciare bizzarre teorie che portano a ottenere il risultato opposto da quello desiderato.
Naturalmente prendiamo in prestito solo l’efficace titolo del libro della Arendt (passato alla storia della letteratura), tralasciando paragoni tra la tragedia dell’olocausto e la nostra epoca, ma lo facciamo per porre l’attenzione sulla banalizzazione di un problema serio come il razzismo che sta avvenendo nelle ultime settimane. Multinazionali che impediscono l’utilizzo della parole bianco o sbiancante, divieto di utilizzare doppiatori bianchi per personaggi di colore, prodotti alimentari come i cioccolatini Moretti tolti dagli scaffali perché “il loro nome evoca il razzismo”, non fanno che depotenziare il contrasto al vero razzismo.
In questa contesto nascono proposte che, con l’intento di risolvere il problema del razzismo, non solo non aiutano nell’obiettivo ma creano nuovi problemi. È il caso dell’idea nata dal dottor Phillip Atiba Goff del Center for Policing Equity – e ripresa da Beppe Grillo – di misurare il razzismo per eliminarlo. L’attività di misurazione nasce analizzando i dati delle forze dell’ordine statunitensi ma la si vorrebbe estendere alle aziende poiché se un’azienda “non ha capito come misurare i modi in cui facilita gli impatti del razzismo sulla comunità che tocca, è a rischio sia morale sia finanziario. Questo soprattutto oggi”. La “misurazione del razzismo” assume una deriva preoccupante se applicata a trecentosessanta gradi nella società; per definire un comportamento razzista ci sono leggi che puniscono chi compie insulti o gesti di questo genere ma, se andiamo oltre la legge e introduciamo valori di misurazione arbitrari, chi ci garantisce l’oggettività dei criteri applicati?
È razzismo chiamare le creme “sbiancanti” o i cioccolatini “Moretti”? Se così fosse, che cosa ci direbbe la misurazione? Pensare di risolvere il problema del razzismo con la sua misurazione non solo è sbagliato ma è anche inefficace. Per cancellare il razzismo serve anzitutto il rispetto reciproco tra le persone, a prescindere dal colore della propria pelle o dalla propria provenienza, punendo i comportamenti realmente razzisti ed evitando di utilizzare un problema che prescinde dall’appartenenza politica come uno strumento di propaganda ideologica e pedagogica. La banalizzazione del problema razzista ci impedisce di realizzare un serio e oggettivo dibattito. Per “cambiare le cause di tutto ciò”, come scrive Grillo, occorrerebbe lasciare da parte il tentativo di sovvertire istanze, tradizioni, usanze e modi di essere che caratterizzano la nostra storia e che nulla hanno a che fare con il razzismo, prendendo invece misure efficaci nei confronti di persone e realtà che si macchiano di comportamenti davvero razzisti.
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