Così la California discrimina bianchi e asiatici nelle università
Roma, 19 giu – La California rispolvera la “affirmative action”. Rispolvera perché, come spieghiamo in questo pezzo, non è affatto una novità. Partiamo però dalla notizia in sé: lo Stato americano più “silicon progressista” ha deciso di riservare corsie preferenziali per l’accesso agli studenti afrocamericani nelle scuole superiori. Una scelta illustrata in un comunicato stampa del Board of Regents dell’Università della California, che all’unanimità ha approvato la ridiscussione della Proposition 209, che nel 1996 modificò la costituzione statale vietando alle istituzioni di considerare la razza, il sesso o l’etnia come criteri di ammissione nel settore pubblico. Stando alla nota dell’Università, l’approvazione all’unanimità dimostra “la necessità proattiva di contribuire a far fronte alle disuguaglianze sistemiche e perpetue nell’istruzione pubblica”.
La protesta degli asiatici
Insomma, sull’onda delle proteste Black lives matter, in California si adotta una discriminazione al contrario rispetto a quanto denunciato dai manifestanti: accesso agevolato per gli afroamericani, con una sorta di “quote nere”. Curiosamente però, come spiegato da Federico Rampini su Repubblica, a protestare contro questa decisione sono soltanto gli asiatici-americani (i bianchi per ora tacciono). Così Crystal Lu, la presidente dell’associazione dei cinesi nella Silicon Valley, ha commentato la pensata californiana: “L’università pubblica va a retromarcia nella storia, verso il ritorno al favoritismo razziale”. Già, sembra surreale ma gli asiatici denunciano una discriminazione che apparentemente negli Stati Uniti ha dell’incredibile: i neri vengono avvantaggiati.
D’altronde gli stessi asiatici sono il primo gruppo etnico, con il 36%, delle matricole universitarie. Mentre al secondo posto vi sono gli ispanici, con i bianchi in terza posizione e gli afroamericani ultimi (rappresentano il 5% dei nuovi iscritti al primo anno dei corsi). Dunque invece di vietare semplicemente le discriminazioni, il sistema universitario della California ribalta tutto e favorisce qualcuno sulla base proprio del colore della pelle. Scelta tra l’altro rivendicata senza troppo girarci intorno dal presidente del board degli atenei, John Pérez, che la giustifica citando l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, noto per la sua lotta contro l’apartheid: “Rimanere neutrali di fronte all’ingiustizia, vuol dire stare dalla parte dell’oppressore. Fare finta che il colore della pelle non conta, significa negare la realtà del razzismo“.
Una vecchia idea discriminatoria
Incredibile? Neanche troppo. Perché come accennavamo in principio di articolo, questo genere di discriminazione fu già adottata negli anni Ottanta. Sempre in California. A ricordarcelo è Robert Hughes, nel suo notevole saggio La cultura del piagnisteo, pubblicato da Adelphi nel 1993. “Verso la fine degli anni Ottanta – scriveva quasi trent’anni fa Hughes – il campus di Berkeley decise che le percentuali dei nuovi studenti ammessi – negri, ispanici, asiatici e bianchi – dovessero corrispondere approssimativamente alla distribuzione demografica di questi gruppi nella popolazione della California settentrionale”. (Breve nota, visto mai che i Black lives matter di casa nostra inizino a frignare indignati: nel libro compare proprio il termine “negri”).
Ma negli anni Ottanta a Berkeley si presentò lo stesso problema di oggi, sempre come spiegato da Hughes: “Tra gli studenti con diploma di scuola superiore che chiedevano di entrare” all’università “gli asiatici (cinoamericani e nippoamericani) si qualificano nella misura del 30%, contro il 15% dei bianchi, il 6% dei chicanos e solo il 4% dei neri”. E per ovviare a questo problema cosa decise di fare l’università di Berkeley? Cambiò i criteri di ammissione: ai neri per entrare bastava un punteggio più basso. E anche allora gli asiatici protestarono. Ecco a cosa porta l’affirmative action, in italiano “azione positiva”, generata stavolta dall’esigenza di lisciare il nuovo moto scomposto dei Black lives matter: alla discriminazione razziale.
Eugenio Palazzini