alebani antirazzisti a Roma: nella notte imbrattata statua e via Amba Aradam diventa “via George Floyd”
Roma, 19 giu – Via dell’Amba Aradam a Roma è famosa principalmente perché vi sorge la casa-museo di Alberto Sordi. E’ davvero difficile che un romano o un italiano in genere passando in quella zona, limitrofa alle Terme di Caracalla e al quartiere di San Giovanni, la ricolleghi al desolato altopiano montuoso etiope che fu teatro, nel 1936, di un sanguinoso episodio bellico.
La furia iconoclasta degli psicotici del politicamente corretto, dopo aver trasvolato l’Oceano Atlantico ed essere atterrata pure in Europa – avendo già messo a soqquadro le città americane e aver abbattuto statue di Cristoforo Colombo, ufficiali confederati, padri costituenti americani e pure ferventi anti-razzisti e filantropi scambiati per l’esatto contrario di ciò che erano – attecchisce pure a queste latitudini. Il primo bersaglio in terra italica è stato il monumento a Indro Montanelli. Non si è parlato di altro. Stanotte è stato il turno della Capitale. Speravamo non accadesse, ma in fondo ci aspettavamo che qualche gruppuscolo di minus habens con il quoziente intellettivo di un animale da cortile – ma forse facciamo torto agli animali da cortile – si sarebbe prodigato in qualche atto analogo.
Detto, fatto: ed è così che una sparuta pattuglia di gendarmi della toponomastica, raccolti sotto la sigla «Rete restiamo umani» e con tanto di post rivendicativo su Facebook, nella notte tra il 18 e il 19 giugno ha prima preso di mira la statua al Pincio del generale Antonio Baldissera, che fu comandante delle truppe italiane in Eritrea nel 1888 (avete letto bene, 1888), rovesciandogli addosso della tinta rosa; e successivamente hanno sostituito la targa toponomastica di via dall’Amba Aradam con una di loro fattura, intitolata a George Floyd e Bilal Ben Messaud (il ragazzo tunisino morto in mare a Porto Empedocle mentre – dicono – cercava di fuggire dalla nave-quarantena, il 20 maggio). Nel loro logorroico comunicato – che trovate qui sotto – pretenderebbero addirittura che cambi nome anche la fermata della Metro C – per ora un cantiere – che prenderà il nome di Amba Aradam, rubricata dagli antirazzisti alla pummarola come una delle «stragi vergognose compiute dai soldati italiani in Etiopia». Ai Romani magari interesserebbe che la stazione venisse ultimata, visto come devono spostarsi tutti i giorni nel caos romano, non che sia intitolata a un altopiano eritreo o meno. Ma tant’è.
Il termine Amba Aradam è ormai divenuto sinonimo di baraonda, di caos, di confusione: questo perché – lungi dall’essere stato teatro di un qualche genocidio volto a eliminare una qualche etnia – lo scontro consumatosi sull’altopiano raggiunse vette da teatro dall’assurdo. Infatti, a dar manforte ai soldati italiani vi erano anche tribù locali al tempo stesso anche alleate contro i nemici degli italiani; il risultato dello scontro fu quindi un clamoroso e sanguinoso tutti contro tutti.
Ci sarebbero molte cose da dire su questi rivoluzionari Black lives matter alla pajata, ma di certo la più gustosa contorsione logica se la tirano dietro da soli con il loro stesso comunicato, accusando il generale Baldissera – e come lui tutti gli ufficiali, i soldati e gli uomini politici del nostro passato coloniale – di essere stati assassini e stupratori e di aver edificato con le loro azioni un presente orrendo e iniquo. Ironia davvero allora. Nominare una via a George Floyd il quale, a parte essere diventato vittima della polizia, non si capisce che meriti avesse; tossicodipendente, violento, rapinatore, aveva fatto irruzione nella casa di una donna incinta minacciandola e puntandole una pistola al ventre. Particolare, questo, che non sembra suscitare alcuna riprovazione nemmeno tra le femministe militanti, pronte a incatenarsi urlando se viene utilizzato il pronome sbagliato.
L’aspetto più grottesco e ridicolo di questi logorroici e ipocriti che scorrazzano di notte imbrattando e vandalizzando monumenti (a proposito: chissà che ne dirà la Raggi, di solito sempre attenta a invocare il decoro urbano) nel nome di altisonanti rivendicazioni, è che stando alla loro «logica», se una battaglia diventa in automatico un genocidio e qualunque soldato uno stupratore e un assassino, allora la risultante dovrebbe essere rimuovere qualunque monumento, qualunque statua, dal Colosseo all’intero Eur (siamo certi che in cuor loro vorrebbero farlo). Il loro modello non è una diversa civiltà, ma più semplicemente la non-civiltà, il nulla. Ma la storia e la civiltà umana, dall’epoca preistorica ad oggi, è progredita anche per mezzo della violenza. Ci piace ricordare la celebre battuta di Orson Welles: «In Italia per trecento anni sotto i Borgia ci sono stati guerra, terrore, criminalità, spargimenti di sangue. Ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo, il Rinascimento. In Svizzera vivevano in amore fraterno, hanno avuto cinquecento anni di pace e democrazia. E cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù».
Cristina Gauri