Black Lives Matter: quando il fascismo abolì la schiavitù in Etiopia
Roma, 12 giu – “Sulle bandiere sventola Hailé Selassié, imperatore copto cristiano Re dei Re, gran protettore del reggae giamaicano, passa una canna di mano in mano”. L’orgasmica esaltazione di certi ambienti di sinistra per la figura di Tafarì Maconnèn, negus neghesti d’Etiopia nonché membro del grande schieramento antifascista internazionale, si può sintetizzare con questa citazione tratta da “Tramonto d’Africa”, evocativo quanto fantasioso pezzo dei Pgr, gruppo di Giovanni Lindo Ferretti sorto dalle ceneri dei Csi. Ad essere generosi, potremmo aggiungere qualche frase estrapolata dai saggi di Del Boca sui gas usati da Graziani e avremmo fotografato il bagaglio di conoscenze sulla storia dell’ex colonia italiana appannaggio di chi oggi urla “Black lives matter” e chiede di abbattere la statua di Montanelli perché “comprò e sposò una ragazzina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava”. Ma l’ignoranza genera spesso confusione, erronee conclusioni e tremendi cortocircuiti. Colti da uno scatto di generosità, cerchiamo allora di evitare che il tarantolato antirazzismo antifascista di chi scende in piazza per George Floyd, incappi oltremodo in figuracce.
L’abolizione della schiavitù in Etiopia: 1935
Il primo atto ufficiale compiuto dall’Italia fascista una volta conquistata la regione del Tigrè in Etiopia fu abolire la schiavitù in vigore sotto il dominio feudale del “protettore del reggae giamaicano” Hailé Selassié. Già, i “razzisti fascisti” il 14 ottobre 1935 promulgarono un bando che metteva fuori legge un sistema economico sociale basato sullo schiavismo di cui si beava “l’antirazzista e antifascista africano” idolo indiscusso degli antirazzisti occidentali. Notare bene: abbiamo scritto “una volta conquistata la regione del Tigrè”, perché la storia non si conosce a suon di canzoni ma tenendo a mente le date e le evoluzioni determinate da precisi eventi. L’Italia fascista aveva infatti iniziato la guerra contro l’Etiopia da pochissimo, il 3 ottobre 1935. Appena dieci giorni dopo e molto prima della conquista totale e definitiva dell’impero di Selassié (avvenuta de facto il 5 maggio 1936 con l’ingresso delle truppe italiane ad Addis Abeba), il fascismo spazzò via in un sol colpo lo schiavismo secolare che attanagliava le popolazioni che abitavano quelle aree dell’Africa orientale. Lo fece con un bando pubblicato sia in italiano che in amarico, tanto per far comprendere a tutti che l’aria era cambiata.
L’Etiopia sotto lo schiavista Selassié
Fino ad allora, come scrisse Evelyn Waugh nel suo sublime reportage In Abissinia, “la schiavitù e le razzie di schiavi erano una pratica universale; la giustizia, se pure veniva applicata, era accompagnata da torture e mutilazioni in misura sconosciuta in qualsiasi altra parte del mondo; le malattie dilagavano”. In tutto questo gli abissini, scrive sempre Waugh, “si vantavano della propria audacia e dell’inferiorità di tutte le altre razze, bianche, nere, gialle e brune”. E invece gli italiani, quei cattivoni “razzisti”, avevano un’altra idea: “Trattare un impero come un luogo che doveva essere fertilizzato, coltivato e reso più bello, invece di un luogo da cui le cose era possibile portarsele via, un luogo da depredare e spopolare”. Nel suo Slavery, Katleen Simon scrisse nel 1929: “L’Etiopia è la regione più arretrata del mondo e colà il problema della schiavitù è urgente: sono esseri umani che divengono una semplice proprietà, proprietà che può essere torturata e venduta sul mercato al miglior offerente; si tratta di mogli vendute, separate dai mariti e viceversa; di madri strappate via dai loro figli che divengono proprietà di un altro. Insomma la schiavitù non riconosce neanche la maternità o la paternità e sancisce il diritto di spezzare le famiglie per ragioni di mercato”. Poi arrivarono gli italiani, e come spiegato da Raffaele Ciasca nella sua monumentale Storia coloniale dell’Italia contemporanea: “Le popolazioni schiave e oggetto di traffico lucroso da parte dei capi e dell’imperatore, venivano restituite a libertà. L’Italia, padrona di quelle terre, debellava quell’ultima roccaforte africana dalla schiavitù”.
L’abolizione della segregazione razziale negli Usa: 1964
Ricordiamo di nuovo la data: 14 ottobre 1935, il fascismo abolisce la schiavitù in Eritrea. Com’era allora la situazione nei democratici Stati Uniti d’America? La segregazione razziale era ancora in vigore, a causa delle vigenti Leggi Jim Crow. Per arrivare alla sua abolizione si dovette attendere addirittura il 1964 con il Civil Rights Act che sancì l’illegalità delle disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, nelle strutture pubbliche e sul posto di lavoro. Trent’anni dopo l’atto di Del Bono dunque. Ma negli Usa il razzismo era ancora presente, a tal punto che diversi Stati federati degli Stati Uniti d’America vietarono il matrimonio interrazziale. E nel 1967 una donna nera e un uomo bianco furono condannati in Virginia a un anno di carcere per essere convolati a nozze. Poi le cose lentamente migliorarono, ma non del tutto. E ancora oggi qualche problemino di natura razzista pare proprio che negli States permanga. Per dirla con il minimalismo di Fante: ask the dusk. La confraternita dell’uva dei Black Lives Matter dovrebbe porre qualche domandina alla polvere americana, prima di gettare fango altrove. Non fosse che le risposte potrebbero generare in loro ontologiche riflessioni, utili a posare il fiasco e dipanare la matassa politica che genera a orologeria il moto scomposto dell’antifascismo antirazzista.
Eugenio Palazzini