Il nazionalismo russo: contro Cina, occidentalismo e sinistra globalista
Roma, 7 giu – Il 18 marzo 2014, di fronte alle camere riunite del parlamento sulla questione dell’annessione della Crimea, Putin, con l’intera società civile russa mobilitata, si sofferma sull’idea nazionale russa e sul “Ruskij Mir” come essenza dello Stato ideocratico. Nel 2020, nel pieno della crisi geopolitica globale da Covid-19, la strategia del Cremlino è quella di affermare la legittimità dei vari Stati democratici sovrani e la missione degli universali spiriti nazionali invasi dai due globalismi totalitari, quello cinese e quello del Deep State.
Anno 2000: Putin diveniva presidente della Federazione russa, di contro ai dogmi progressisti dei due avanzanti globalismi di sinistra (comunismo cinese e americanismo clintoniano), il neo-presidente russo lanciò un sasso nello stagno del nuovo bipolarismo mondiale: “Cristo, Nazione russa, Democrazia sovrana” sarebbero stati i valori e la politica della Nuova Russia. Putin tracciava una linea rossa: aveva già capito quale fosse il nemico vero, quella sinistra globalista che stava mettendo in moto una nuova rivoluzione mondiale, metamorfosi di quella antirussa dell’ottobre ’17. La destra nazionale russa entrava però nel campo globale con Putin: attiva contro la sinistra materialista globalista, non sovrapponibile al suprematismo bianco “protestante” occidentale. Sedici anni dopo, l’intero occidente avrebbe iniziato a vivere un conflitto politico e sociale – identità culturale e nazionale contro totalitarismo globalista di sinistra – che la Russia aveva risolto ormai da anni. I militanti di destra radicale sono accettati, in Russia, se non assumono posizioni scioviniste e razziste russofobe, mentre i militanti “antifascisti” sono continuamente monitorati e spesso arrestati come nemici della patria se si macchiano di gravi reati (ultimo caso si è avuto nello scorso febbraio).
Eurasismo?
Sono passati ormai circa 30 anni – eravamo allora nel gennaio 1992 – da quando il settimanale “Den”, diretto da Aleksandr Prochanov, pubblicò gli atti di un simposio, “La resistenza eurasista”, al quale parteciparono il generale Klokotov dell’Accademia militare, Dugin e Sultanov membri della redazione, Sergej Baburin con una corrente nazionalista russa, De Benoist e Steuckers con altri rappresentanti della neo-rivoluzione conservatrice europea.
Tale resistenza apparve da subito svincolata dall’eurasismo classico di Savickij e Trubeckoj, fortemente indirizzata dalla visione dottrinaria della Rivoluzione Conservatrice europea degli anni’30. La sintesi teorica di tale concezione risultò nel delinearsi di una auspicata contrapposizione geopolitica di civiltà tra “Terra” e “Mare”, ovvero potenze continentali da un lato e potenze marittime dall’altro, blocco continentale alleato strategico di Cina, India, Iran da un lato e talassocrazia angloamericana dall’altro. Di solito i critici si limitano a segnalare l’adesione di Zjuganov con il suo Partito comunista della Federazione russa (KPRF) a tale indirizzo storico e geopolitico, trascurando sorprendentemente la piena appartenenza di un pezzo da novanta come Primakov alla strategia di civiltà eurasista.
Nel gennaio 1996 Primakov sostituì quale ministro degli esteri quel Kozyrev che fu convinto fautore dell’avvicinamento russo con la Nato, come emerge dall’importante saggio di Strobe Talbott “The Russia Hand”; da allora, per tre anni, nonostante l’altalenante e confusa leadership di Eltsin, la politica estera russa sembrò muoversi concretamente sulla via del blocco continentale, avviando collaborazioni strategiche con Cina ed Iran e ponendo altresì le basi per una collaborazione ad ampio raggio con i popoli turchi o turcofoni dell’ex Urss, come chiedeva a gran voce il comunista Eduard Bagramov. Andrej Panarin, noto ideologo dell’ “eurasismo accademico”, scrisse che la linea strategica eurasista molto doveva alla morfologia del clash of civilitation (scontro di civiltà) di Huntington; rifiutato come russofobo il modello atlantico che sembrava prevalere nell’epoca Eltsin, Panarin scartava anche il modello nazionalistico organicistico e quello neo-panslavista che avrebbero condotto, a suo parere, ad un contemporaneo conflitto sui classici due fronti (occidente e Islam o occidente e Cina), per delineare teoricamente la rifondazione della Russia su base eurasista. Sul piano del pragmatismo politico, in definitiva, l’eurasismo non poteva essere declinato che come modello “neo-sovietico” o nazionalcomunista.
Il putinismo come nazionalismo e conservatorismo di Stato
L’ideocrazia putiniana non è, evidentemente, figlia né figliastra dell’eurasismo sebbene molti influenti consiglieri presidenziali, tipo Glazyev, puntino in quella direzione. Non andrebbero dimenticati taluni manifesti del fronte Rodina (Patria) di Rogozin, partito militante del putinismo (dal 2007 partito della “Grande Russia”), che si potevano vedere nelle strade di Mosca o San Pietroburgo nei primi anni del 2000; sembravano infatti, tali messaggi, quelli dei neofascisti italiani degli anni ’70 con la rappresentazione grafica della Grande Europa delle Nazioni sovrane da Lisbona a Vladivostock. Era un europeismo di tipo culturale revisionistico, non economicistico, in evidente continuità con il nazionalismo slavofilo di Igor Safarevic, Alexander Solzenicyn e con i social-cristiani di Evgenij Vagin che si rifacevano al movimento nazionalpopolare antibolscevico degli anni ’30; un integrazionismo eurorusso che contestava i processi di allargamento della UE e le varie riforme strutturali incentrate sulla moneta unica. Nel messaggio alla nazione del 2005, non a caso, Putin ribadì che la Russia assegnava alla collaborazione con l’Europa un ruolo di primissimo piano nel campo della civilizzazione globale.
Quale fu allora il motivo di una separazione di intenti e prospettive sempre più palese? Evidentemente Putin, con il tutto il suo pragmatismo, deve comunque aver preso molto sul serio “La lezione di Bisanzio” di Tichon Sevkunov, suo confessore spirituale. La lezione di Bisanzio è la missione della Terza Roma cristiano ortodossa, il che significa non rinnegare la “vera fede”, reiterando sul suolo russo mode o pratiche ideologiche che condurrebbero allo sfaldamento morale e spirituale. Sotto attacco e sotto la lente di osservazione del Patriarcato di Mosca vi è perciò quel fanatismo progressista europeista, che agli occhi del “partito del patriarca Kirill” rimanda, per quanto con tecniche o modalità di agire solo apparentemente differenti, al nichilismo del terrore sovietico già patito dai russi. Si pensi che tra il 1960 e il 1985, in una fase già meno critica di quella del Terrore di Lenin e Stalin, l’abortismo sovietico di Stato realizzò il massacro di circa 140 milioni di vite innocenti! Putin e la Chiesa Ortodossa hanno in materia gradualmente avviato, nel corso degli anni, una legislazione per nulla repressiva, aprendo migliaia di centri di sostegno per donne in attesa, promuovendo la politica di natalità demografica e di sensibilizzazione, rafforzando la sanità pubblica universale; nonostante ciò, stampa e istituzioni dell’UE attaccano la Russia cristiana “nazione negatrice di diritti”. Di qui la laconica definizione del presidente Putin: Ue significa Unione Sovietica Europea. Lo stesso si dica dell’ideologia gender, che peraltro è stata in questi giorni stigmatizzata in termini molto forti dallo stesso papa emerito Benedetto XVI. L’europeismo basa con cieco fanatismo tutta la strategia di civilizzazione e la base pedagogica delle nuove generazioni su questi presunti diritti, che i russi generalmente non comprendono e sicuramente non apprezzano; per di più, il putinismo pur non essendo il prototipo di un fenomeno storico rivoluzionario conservatore, si è però sempre più caratterizzato come una ideocrazia conservatrice panrussa e nonostante il presidente della Federazione sappia come buona parte dei suoi connazionali sia ancora vittima del lavaggio del cervello sovietico, ha coraggiosamente innalzato come eminenti spiriti dell’Idea Russa i vari Denikin, Vrangel, Solzenicyn, Ivan Ilyn.
Una politica estera di “Sacra difesa” e la terza linea russa
L’Unione Eurasiatica è perciò niente di più che una diversione tattica geoeconomica radicatasi nel contesto di una nuova guerra fredda antirussa, pianificata con l’”Euromaidan” (2014) dall’amministrazione dem statunitense a guida Obama-Clinton, ben più pericolosa di quella tra Usa e Urss, e per la nuova impostazione conservatrice ortodossa della Russia, antitetica al progressismo globalista sino-euro-americano, e per la specifica pressione cinese ad est.
Come sostiene giustamente Dimitri Trenin, l’aquila a due teste, emblema nazionale russo, all’apparenza simmetrica, si è sempre sporta verso ovest piuttosto che verso est. La politica estera putiniana, nel corso degli anni, ha dimostrato di avere una strategia difensiva, né aggressiva né imperialista, la linea rossa è rappresentata dalla volontà assoluta di difendere la “fortezza ortodossa”: Mosca Terza Roma. Si pensi alla tattica mediorientale: si mira anzitutto alla difesa della cristianità ecumenica sterminata dal terrorismo islamico, in concerto con il baathismo siriano, ma non si vuole destabilizzare né Israele, né la Turchia, nonostante la proiezione imperialista e neo-ottomana di Ankara. Importanti esponenti del mondo finanziario ed economico, di cui Karaganov sembra essersi fatto portavoce, spingono per una alleanza strategica con la Cina ed il Deep State angloamericano ha finto di rappresentarsi come un incubo un eventuale patto di ferro tra russi e cinesi. L’elite politico-militare di Mosca non cade però nel tranello. Il ventre molle della potenza cinese è costituto, come noto, dai settori di avanguardia sul piano della tecnologia militare. La fornitura russa di tecnologie militari a Pechino, tutta di seconda generazione, rientra nella consolidata logica di partnership commerciale e geoeconomica, esula assolutamente dall’alleanza strategica ed in più casi, anche negli ultimi mesi, Yevgeny Livadny, amministratore delle proprietà intellettuali Rostec (Ministero della Difesa) ha accusato esplicitamente la Cina di essere stata più volte colta nel tentativo di copiare le tecnologie militari russe di ultima generazione. Inoltre, la Russia, soprattutto in momenti storici decisivi, come ci insegna la sua millenaria storia, non ama prendere parte ad alleanze strategiche in cui risulti elemento non centrale dello schieramento. Una eventuale alleanza con Pechino sarebbe in tal senso di evidente subalternità.
Certamente, una prossima leadership dem negli Usa, se vi sarà, troverà la Russia pronta a ogni possibile escalation; il sovranismo digitale, l’auto dipendenza satellitare e la ipotetica autarchia economica sono state sperimentate nelle ultime settimane con risultati non peggiori rispetto a Cina ed Usa. Infine, la recente politica putiniana ha ben mostrato che quanto sostenevano gli eurasisti alla fine degli Anni 90 non era vero: la Federazione russa, ben guidata dal ministro S.K. Sojgu, pur avendo temporaneamente perso Kiev, si è mostrata all’altezza di saper “reggere botta” sui fatidici due fronti. Dal 2013 al 2019, il fronte russo ha affrontato, in contemporanea, occidente e terrorismo islamico con risultati che non sono stati affatto catastrofici. Tutt’altro. La Terza linea russa, indipendente dai materialismi di oriente e occidente, è fattivamente sul campo da anni e tale con ogni probabilità continuerà a essere.
Mikhail Rakosi