Obamagate, le rivelazioni di Rosenstein inguaiano i democratici
L’ex vice procuratore generale Rod Rosenstein è stato il primo testimone a essere sentito dal comitato giudiziario del Senato presieduto dal senatore Lindsey Graham nell’ambito dell’indagine sulle origini del Russiagate. Per il momento, Graham ha rinviato il voto sull’autorizzazione a citare in giudizio più di 50 persone coinvolte nell’Obamagate: il senatore vicino a Donald Trump ha dichiarato di aver voluto posticipare il voto per dare ai senatori abbastanza tempo per discutere pienamente la questione. Le rivelazioni di Rod Rosenstein, tuttavia, sono a dir poco “scottanti”. Come riporta Agenzia Nova, Graham ha interrogato con insistenza a Rosenstein sulla legittimità della nomina del procuratore speciale Robert Mueller a capo dell’inchiesta, che non ha rilevato alcun collegamento tra la squadra di Trump e le ingerenze russe sulla campagna elettorale. L’ex numero due del dipartimento di Giustizia ha ammesso che non avrebbe firmato il mandato del 2017 per la sorveglianza FISA dell’ex consigliere di Trump, Carter Page.
“Non credo che l’indagine sia stata corrotta, ma certo comprendo la frustrazione del presidente alla luce del risultato, ovvero che non vi è alcuna prova di cospirazione tra i consiglieri della campagna elettorale di Trump e i russi. Indaghiamo su persone che non sono necessariamente colpevoli. E non ho mai presunto che questa gente fosse colpevole di nulla”, ha affermato Rosenstein.
I momenti chiave dell’audizione all’ex vice procuratore di Obama
Come scrive il New York Post, è chiaro a questo punto, a maggior ragione dopo l’ammissione di Rod Roseinstein, che l’indagine sul Russiagate non aveva motivo di essere aperta. Come ha ammesso l’ex vice procuratore generale, l’Fbi “non seguiva i protocolli e c’erano errori significativi”. Il senatore repubblicano Ted Cruz ha rincarato la dose, accusando l’amministrazione Obama: “Ciò che l’amministrazione Obama/Biden ha fatto nel 2016 e nel 2017 rende tutto ciò che ha fatto Richard Nixon insignificante”, con un chiaro riferimento allo scandalo Watergate. Difficile dare torto a Cruz: i funzionari delle agenzie governative all’epoca dell’amministrazione Obama hanno dato credito al dossier redatto dall’ex spia britannica Christopher Steele che, oltre a esser ampiamente screditato è anche stato pagato con i soldi della Campagna di Hillary Clinton. Senza dimenticare le chiare violazioni, sempre da parte dell’Fbi, che hanno portato il Dipartimento di giustizia a ritirare tutte le accuse nei confronti del tenente generale Michael T. Flynn, primo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump.
Graham ha dichiarato a Sean Hannity su Fox News che l’udienza di mercoledì è stata “il primo passo nel viaggio che si concluderà in ottobre per cercare di spiegare al popolo americano cosa diavolo è successo”. “Com’è possibile – ha aggiunto – che l’FBI e il Dipartimento di Giustizia abbiano frodato così tante volte il tribunale FISA e nessuno ne sapesse nulla?”. Graham ha poi sottolineato che se qualcuno era a conoscenza del fatto che il dossier Steele fosse “spazzatura” ora potrebbe “essere un candidato adatto per andare in prigione”. Il rapporto IG aveva rivelato che gli agenti dell’Fbi sapevano che Steele lavorasse per Glenn Simpson (Fusion Gps) e che quest’ultimo stesse pagando Steele per scavare su Trump per conto della Campagna di Clinton: Steele informò l’Fbi che Hillary Clinton stessa era conoscenza del suo lavoro. Cosa forse ancor più grave, l’ex agente del MI6 non tenne per sé il materiale riservato che aveva appreso dall’Fbi. Poco dopo l’incontro di Roma, infatti, Steele informò Simpson ciò che l’Fbi gli aveva rivelato.
E ora rischia anche l’ex ambasciatore in Italia, John Philips
Il senatore repubblicano Ron Johnson del Wisconsin ha sottolineato di essere più che “sbalordito” dall’ampiezza della corruzione del governo Usa nella transizione del potere tra le presidenze di Barack Obama e Donald Trump. Come riporta La Verità, il Senato americano si prepara ad accendere i riflettori su John Phillips, ambasciatore americano in Italia dal 2013 al 2017. Proprio Johnson, come ha stabilito la commissione per la Sicurezza interna da lui presieduta, gli ha concesso la facoltà di emettere ordini di comparizione per quei funzionari dell’amministrazione Obama che chiesero di svelare il nome di Mike Flynn nelle conversazioni intercettate, in cui era rimasto coinvolto. Tra questi c’è proprio Philips, grande “supporter” dell’ex premier Matteo Renzi.
Come riporta Forbes c’è anche Philips nella lista dei 39 ex funzionari dell’amministrazione Usa che chiesero che l’identità di Michael Flynn fosse rivelata nei rapporti dell’intelligence – un processo noto come unmasking – secondo i documenti resi disponibili a due senatori repubblicani dal direttore dell’intelligence nazionale Richard Grenell. Oltre all’ambasciatore compaiono, tra gli altri, Joe Biden, i nomi dell’ex direttore dell’Intelligence nazionale James Clapper, divenuto poi uno dei più vocali detrattori del presidente Trump; dell’ex direttore dell’Fbi James Comey; dell’ex capo del personale della Casa Bianca, Denic McDonough. Tra i nomi spunta poi anche quello di Kelly Degnan, ex vice capo missione all’ambasciata di Roma, il che fa supporre che il nostro Paese possa essere in qualche modo coinvolto dalla controinchiesta dell’amministrazione Trump sulle origini del Russiagate. Come ricordava La Stampa lo scorso febbraio, proprio a Roma, il 3 ottobre 2016, si era svolto un incontro segreto e cruciale tra gli investigatori dell’Fbi e Christopher Steele.
Quel tweet di Trump che coinvolge Roma
Un paio di settimane fa, nella raffica di tweet del presidente Usa contro il suo predecessore Obama, accusato dall’attuale inquilino della Casa Bianca di aver tentato di “sabotare” la sua presidenza confezionando delle false accuse di collusione con il Cremlino, Donald Trump ha ritwittato l’esperto dell’Hoover Institution Paul Sperry, il quale cita un nome in particolare: l’agente dell’Fbi Michael Gaeta, assistente legale presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Roma. Sperry scrive: “Gaeta, il contatto dell’Fbi di Christopher Steele”, autore del falso dossier sul Russiagate ed ex spia britannica, “ha testimoniato di aver incontrato “quest’ultimo il 5 luglio 2016 e di aver concluso i suoi rapporti con Steele nel novembre 2016 nei rapporti Fd-1023 ma l’Ig Horowitz non menziona tali rapporti”. Un nome, quello di Gaeta, che porta sempre sulle tracce della Capitale, epicentro delle trame contro il presidente Usa.
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