Migranti, non è vero che lavorano solo loro nei campi: quanti italiani fanno la fila per un posto da bracciante
Con le mani nella terra. Senza paura di sporcarsi. Anzi, con il timore di non farne abbastanza. A raccoglier pomodori, asparagi, zucchine. Inizia a far caldo, le campagne si riempiono. È il momento dei braccianti, lavoratori stagionali mai precari come quest’anno. Si fa la fila davanti a quasi tutte le aziende agricole del Paese. A quelle che hanno riaperto, almeno. E però, al contrario di quel che molti pensano, sono gli italiani, oggi, che vanno a zappare. Per disperazione, per bisogno. Perché altrimenti è peggio: chiusi lì, tra gli scampoli della quarantena e la ripartenza che va a sbuffi. Un po’ ovunque. Meglio rimboccarsi le maniche. Tanto che i portali on-line (anche l’agricoltura vive di internet) delle principali associazioni di categoria faticano a star dietro a tutte le domande.
Coldiretti, Cia (Confederazione italiana degli agricoltori), Confagricoltura: sono sulla stessa barca. Ricevono email su email di richieste che suonano come preghiere. Per favore, fateci lavorare. «Non è così semplice trovare spazio per tutti», ammette Antenore Cervi, della Cia di Reggio Emilia. «Negli ultimi decenni l’agricoltura si è molto meccanizzata. Spesso, oggi, c’è bisogno di manodopera un minimo specializzata». Come a dire, non ci si improvvisa braccianti. Neanche dopo l’onda d’urto del coronavirus. E poi c’è il mercato. Saturo. «In media, per ogni offerta di lavoro di un’azienda ci sono circa dieci domande». Capito l’antifona? Appena sotto il Po va in scena la corsa alla vanga.
C’è Paola (racconta l’edizione locale de Il Resto del Carlino) che lascia l’ufficio per l’aria aperta. Ma c’è anche Marco, ex barman. O Gianni, ex impiegato. O Adriana, ex guida turistica. L’impiego della fatica e delle mani callose. Lo scelgono in tanti. In (almeno) 24mila: e solo a contare gli italiani. Le liste messe assieme sul web fanno impressione. Agrijob (il sito di Confagricoltura) ne conta 12mila. Jobbing Country (Coldiretti) 9.500. Altri 2mila la Cia. Humus Jobs arriva a 700, la metà netta dei suoi. Sarà la crisi nera, sarà la pandemia, sarà (in alcuni casi) la voglia di mettersi in gioco e sarà anche che c’è gente che il lavoro l’ha perso prima del patatrac sanitario: ma erano decenni che gli italiani non rispondevano così alla chiamata delle campagne.
Intendiamoci, la stragrande maggioranza dei braccianti stipati nei nostri campi è composta da immigrati. Rumeni, marocchini, indiani, senegalesi. La loro quota sfiora le 370mila persone, un numero molto maggiore rispetto a quello tricolore. Però, alla fine, chi l’avrebbe mai detto. Ché il cameriere si reinventava contadino e il designer pure. Una cooperativa che della frutta, a Cuneo, sostiene di aver vagliato diverse richieste di ragazzi liguri tra i 30 e i 40 anni, tutti (o quasi) con un impiego saltato nel turismo. E c’è la difficoltà a reperire manodopera oltre confine, visto che i confini sono sigillati. In Emilia Romagna ci sono aziende agricole che dicono d’esser state contattate solo ed esclusivamente da (aspiranti) lavoratori italiani.
La regolarizzazione voluta dal ministro Bellanova ha aperto una breccia sugli extra-Ue (parentesi: i sindacati non son comunque contenti, la sigla Usb Lavoro Agricolo proclama sciopero per giovedì prossimo). Gli italiani, intanto, si candidano a colpi di click. «Ci hanno scritto studenti e laureati. Molti vengono dalla ristorazione o dal settore alberghiero e sono disposti a spostarsi», preannunciava un mesetto fa Romani Magrini, responsabile Lavoro di Coldiretti. Si torna alle origini. Gli italiani, adesso, vogliono fare quei lavori che gli italiani non volevano più fare prima di Covid-19. Gioco di parole a parte, è la realtà. Imprese ridimensionate e serre strapiene di personale. Nella campagna piemontese, una decina di giorni fa, per settanta posti come braccianti si sono presentati in mille. Di questi, appena il 15% era straniero: tutti gli altri avevano un curriculum con su scritto “disoccupato” o “cassaintegrato” o “assegnatario di reddito di cittadinanza”. Per dire.