Orrore a Napoli, senegalese violenta un’infermiera: “Mi diceva: ‘ti uccido, ti devo purificare’”
Napoli, 7 mag – Aggredita e resa vittima di violenza sessuale in pieno giorno da un immigrato di origini senegalesi, nella Napoli deserta per il coronavirus. E’ successo a un’infermiera 48enne, impiegata in un reparto di psichiatria che si occupa dei «reduci» del Covid-19: «Escono traumatizzati dalla malattia e noi li seguiamo con affetto e attenzione», ha spiegato a Repubblica che l’ha intervistata.
La vittima stava facendo ritorno alla propria abitazione, ad Avellino; dopo aver preso la metropolitana era arrivata in anticipo alla stazione. L’autobus per Avellino sarebbe partito un’ora dopo. «Alle due e mezza del pomeriggio non c’era anima viva, così mi sono seduta su una panchina ad aspettare», spiega. Poi l’incontro con il proprio aguzzino: il senegalese «ha scavalcato una recinzione ed è venuto verso di me. Ho subito avuto paura, aveva l’aria minacciosa. Mi ha afferrato un braccio. Io ho subito pensato a una rapina: così, per salvarmi, gli ho dato la borsa. “Prendi tutto, ci sono i soldi”, ho detto. La risposta mi ha raggelato. Ha detto: “Non voglio i tuoi soldi, quelli ce li ho”. Poi mi ha strattonato e scaraventato per terra. Ho visto il mio cellulare volare via, mi ha strappato il giubbino di dosso. Ho capito che per me era finita», racconta la donna, che è ancora sotto shock.
Quarantacinque minuti è durato il calvario dell’infermiera: «Non era un uomo, era una bestia», ricorda. «Era il doppio di me e tutto il suo peso era sulla mia schiena. Si arrabbiava, perché avevo i jeans troppo stretti e non riusciva a levarmeli». La vittima racconta i terribili momenti in cui l’uomo le si è messo con tutto il proprio peso sulla schiena provocandole «un dolore immenso. Non saprei dire se era più forte quello fisico o quello mentale. Mi infilava le mani dappertutto e si arrabbiava perché io mi difendevo. Diceva cose assurde, come in una litania: “Ti uccido, ti devo purificare, di tolgo il fuoco che hai dentro. Devi spogliarti di tutto, vestirti e pettinarti come dico io”. Io sentivo ma non respiravo con quella mano sulla bocca».
Nessuno ha aiutato la 48enne, nemmeno una donna di passaggio – ripresa dalle telecamere e di cui la polizia sta ricercando l’identità – che nonostante le suppliche dell’infermiera non si è fermata e non ha chiamato rinforzi. «Le telecamere hanno ripreso tutta la violenza, ma nessuno stava guardando quei filmati in diretta, altrimenti sarebbe subito intervenuto. Usano i droni per trovare le persone che vanno sulla spiaggia nonostante l’emergenza Covid. Perché non li usano per prevenire queste e altre aggressioni?».
Fortunatamente l’arrivo dell’autobus ha posto fine all’incubo della donna: «L’autista ha visto cosa stava succedendo, è sceso e ha cominciato a urlare. Intanto però è arrivato l’Esercito. Tre militari lo hanno circondato e a quel punto io sono riuscita ad alzarmi e mi sono rifugiata sull’autobus. Poi è arrivata anche la polizia, quattro volanti per bloccare quell’essere immondo. Non mi hanno lasciato più». Per l’infermiera, ora, arriva la parte più difficile forse della violenza stessa, cioè l’elaborazione del trauma: «Ho dovuto vivere il dolore di mia figlia che si sente ferita come donna e come figlia. E quello di mio marito che si sente in colpa e impotente per non avermi potuto proteggere. Sono traumi che travolgono tutta la famiglia», spiega. «Ma la cosa che mi fa più male è la paura che ho avuto della morte e che ora mi impedisce di sorridere».
Cristina Gauri