Incubi, “buchi di vita” e panico: così il virus tortura i guariti
C’è chi ha avuto paura di non tornare a casa, di non rivedere più le persone care e di perdere tutto. Il controllo, la lucidità e, persino, la vita. C’è chi si è sentito disorientato nell’arrivare in ospedale e osservare attorno a sé il personale sanitario protetto da quei dispositivi che lasciavano intravedere soltanto gli occhi. C’è chi ha avuto paura di non riuscire a sopportare il rumore dei macchinari, il trauma dell’intubazione, l’isolamento, la solitudine e il timore perenne che quella fosse la fine. Poi, nei casi più gravi e compromessi, c’è stata anche l’esperienza della terapia intensiva o il coma farmacologico, che hanno come azzerato tutto, cancellando un pezzo di esistenza.
E poi, c’è chi ha avuto paura di non riuscire a respirare. Perché il nuovo coronavirus, per i malati più gravi, ospedalizzati, è stato questo: una patologia nuova, di cui quasi nessuno sapeva nulla, un avvicinamento costante con la morte e un’esperienza che si porterà dietro importanti ripercussioni psicologiche. Perché la fase due, per un ex paziente Covid-19, può risultare un percorso molto faticoso, quasi quanto quello della guarigione dalla malattia.
Una “paura” generalizzata
Attacchi di panico, incubi ricorrenti, irritabilità e ansia sono soltanto alcuni dei sintomi più comuni presenti in una persona che, da poco, è uscita dalla condizione di malato Covid. “In tutti i pazienti viene riportata una paura generalizzata, mi creda anche dell’aria”, spiega al Giornale.it Marcella Bassan, psicologa e psicoterapeuta, che racconta il primissimo impatto che la malattia porta nella vita dei pazienti dimessi, che hanno quasi sempre il timore “di rivivere quell’incubo, che non sia tutto realmente finito e che niente torni come prima”. Toccano letteralmente con mano la vicinanza con la morte e quasi tutti accusano il timore di perdere il controllo, perché finiti improvvisamente in una condizione insolita e sconosciuta. E se quello stato non viene trattato adeguatamente, il rischio è che i soggetti sviluppino diversi problemi, dall’ipocondria al (più grave) disturbo post traumatico da stress (e questo vale per tutti, anche per chi prima non soffriva di patologie legate all’ansia). Perché il nuovo virus, che in Italia è arrivato come d’improvviso alla fine di febbraio, colpendo per prima una piccola area in provincia di Lodi, poi un’altra in provincia di Padova e infine tutto il Paese, somiglia poco alle malattie virali a cui siamo tutti più abituati, perché inizia con alcuni sintomi influenzali, ma si evolve in maniera (quasi) sempre diversa: c’è chi ha febbre alta per giorni, chi prova forti dolori al torace, chi segnala la perdita di gusto e olfatto (sintomo che, però, è comune ad altri coronavirus), chi prova un’intensa (e insolita) stanchezza, chi accusa da subito sintomi respiratori molto gravi e chi, invece, ha un tracollo respiratorio che non si aspettava.
Vulnerabili e traumatizzati
Il ritorno alla normalità rappresenta per gli ex pazienti un momento molto complesso e lo conferma il fatto che tanti continuino “a guardarsi le spalle”, per riappropriarsi di quel controllo perduto con la malattia. “I pazienti che sono stati colpiti dal Covid-19 non erano a conoscenza della tipologia di virus, non sapevano in che modo la malattia li avrebbe riguardati, né erano certi della loro guarigione. Questo li ha resi ancora più vulnerabili”, conferma Bassan, la quale è convinta che in questa fase tra il 70 e l’80% degli ex malati possano presentare sintomi legati all’ansia. A cui, però, vanno aggiunti tutti quelli in che hanno difficoltà di concentrazione, problemi di memoria, irritabilità, continui flashback, attacchi di panico, incubi ricorrenti e affaticamento. Tutte avvisaglie tipiche di un disturbo post traumatico da stress, perché ciò che hanno vissuto è stato, a tutti gli effetti, un trauma. “Lo è scoprire di avere il coronavirus, andare in ospedale, stare lontano dai propri affetti in un momento così difficile, non avere la certezza di rivederli, l’intubazione e persino lo stare nel casco Cpap – spiega Bassan -. Quando escono dall’ospedale per loro è difficile smaltire tutto il vissuto senza effetti collaterali ed è frequente che non si tratti di una semplice forma d’ansia, che invece è una condizione fisiologica in un caso del genere”.Un medico visita un paziente (Fotogramma)
Come riconoscere il disturbo post traumatico da stress?
Come riportato dall’Istituto superiore della Sanità, il disturbo post traumatico da stress è una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche. Può manifestarsi in persone di tutte le età ed essendo una condizione complessa e derivante da diversi fattori, la diagnosi non è mai univoca, né semplice. Nel caso degli ex pazienti affetti da nuovo coronavirus, quando si presentano sintomi eccessivi significa che si sta instaurando questo tipo di disturbo: “Quando iniziano a esserci queste avvisaglie, come per esempio gli incubi ricorrenti, il timore di rivivere l’evento, un pensiero continuo legato all’esperienza e persino la paura di uscire di nuovo ci troviamo di fronte a questa condizione”, spiega Bassan. Che aggiunge: “Ci accorgiamo che possiamo essere interessati da questo fenomeno quando di fronte a un evento traumatico esiste un primo momento di choc, dove si riscontra una disorganizzazione mentale, con reazioni fisiche ben precise, come tremori, senso di freddo, nausea e pianto. Poi c’è una reazione cognitiva, quindi mentale, di negazione o di dissociazione: in questo caso i pazienti non ricordano, non capiscono o negano il fatto, perché l’evento è troppo forte e la rimozione diventa un meccanismo di difesa per l’essere umano”. E per non confondere il disturbo post traumatico da stress da una più lieve e fisiologica forma d’ansia, la psicologa precisa: “Se sei un paziente appena tornato a casa dall’ospedale ti trovi in una situazione di oggettiva tranquillità, non sei a rischio e in quello specifico momento non dovresti presentare tutte queste sintomatologie. Se si presentano potrebbe esserci un disturbo di questo, perché se una forma di ansia generalizzata è giustificata, tutto il resto non lo è”.
Il (difficile) ritorno alla socialità
Oltre alla malattia e a ciò che comporta, l’ex paziente Covid-19 prova anche una certa preoccupazione legata all’approccio con il prossimo e, soprattutto, il ritorno alla socialità: “Molte persone che sono state affette dal virus provano delle emozioni inconsapevoli, che riguardano il senso di colpa (per esempio l’aver potuto contagiare altre persone o l’aver fatto soffrire i familiari) e la vergogna di essere additati come untori”. Come spiegato dalla terapeuta, in alcuni soggetti poi, può attivarsi un altro meccanismo inconscio, che riguarda invece la “colpa del sopravvissuto”, cioè di chi è riuscito a superare la malattia a differenza di chi, invece, non ce l’ha fatta. “Tornare in mezzo agli altri non è semplice, perché comporta il doversi confrontare con quanto accaduto e sappiamo che, in alcuni casi, molti ricorrono a una forma di evitamento per non pensare a ciò che è stato– continua la psicologa-. Serve una gradualità nell’approccio con gli altri, perché aggirare il ritorno alla quotidianità non è sano, ma è altrettanto vero che è necessario fare un passo alla volta, non esponendosi a delle situazioni troppo forti, ma compiendo piccoli passaggi per ricominciare a rapportarsi con gli altri con normalità”.
I comportamenti virtuosi da mettere in atto
E per cercare di superare questa fase esistono delle strategie che possono “liberare” i pazienti da questa gabbia di paura. Così Bassan, così come l’ordine degli psicologi, consiglia di riposarsi, alimentarsi in modo regolare, trovare una routine giornaliera diversa da quella precedente, tenersi impegnati con tante attività e passare del tempo con i propri affetti, quando è possibile. “Ma è anche importante parlare dei propri problemi con persone di fiducia, per non tenersi tutto dentro e far emergere tutte le emozioni e le difficoltà”, suggerisce la dottoressa. Che aggiunge: “Oltre alle attività di rilassamento, io consiglio di riprendere tutte quelle attività che riguardano il mondo esterno: è utile, per esempio, tornare a fare la spesa, andare in edicola o fare una passeggiata attorno a casa, stando sempre attenti a non esporsi a situazioni troppo difficoltose. Gli ex pazienti devono imparare a individuare le situazioni in cui si trovano più a loro agio, partendo da quelle più semplici fino ad arrivare alle più complesse. Una cosa molto utile è anche quella di collaborare a eventi comunitari, mettendosi a disposizione degli altri, come accade per il volontariato: un impegno che ci fa sentire indispensabili aiuta anche tutti quei pazienti che provano il senso di colpa di essere sopravvissuti a un’altra persona, come può essere un compagno di stanza che non ce l’ha fatta”.I medici trasportano un paziente in terapia subintensiva (Fotogramma)
Il caso dei pazienti in coma e il “buco di vita”
Ancora diversa è la situazione che riguarda i pazienti che, a lungo, sono stati in coma farmacologico a causa delle complicanze legate al virus. In quel caso si riscontra, infatti, quello che la terapeuta Bassan definisce “un buco di vita”, dove il malato non sa assolutamente che cosa gli sia accaduto: “Il fatto di ‘addormentarti’ in una situazione e di ‘svegliarti’ magari due mesi dopo in un’altra comporta una situazione molto traumatica”. E alla domanda se sia meglio avere assistito alle proprie cure o essere stati sedati, la terapeuta spiega: “Le due situazioni portano traumi diversi e non sono paragonabili: chi non ha vissuto quei momenti della malattia, rispetto ad altri, vive una traumatologia legata al non controllo, un’idea di vulnerabilità connessa all’incertezza, al non sapere. In questi casi, infatti, aumenta di molto il bisogno di controllo”. In questo caso, uno degli esiti della convalescenza è il disturbo ipocondriaco, che altro non è che la necessità di dominare ciò che ci sfugge. “Verificare continuamente se si sta bene o se si sta male è una forma di controllo infatti, che si amplifica molto per chi l’ha perso per un periodo o per chi non l’ha avuto – conferma la terapeuta -. Se un ex paziente ha avuto un periodo di vuoto nella sua vita cercherà di riportare il controllo su qualcosa che può dominare”. Perché, come conferma la specialista, un buco temporale di quel tipo rappresenta una rimozione di una parte della vita: “Il mondo è andato avanti senza di te, così come i tuoi affetti, che hanno fatto cose mentre tu non c’eri”.
L’anticamera della morte
Non è da sottovalutare nemmeno l’impatto che il coma farmacologico ha avuto su quei pazienti che hanno percepito una certa vicinanza con la morte.”Toccare con mano la possibilità di andarsene ci fa paura. È un pensiero che cerchiamo sempre di evitare perché ci spaventa. In quella circostanza, invece, i pazienti sono stati costretti a confrontarsi con una dei timori più importanti, perché molto vicino a loro”, spiega l’esperta. “Nel momento del saluto alla famiglia, quando si è saliti in ambulanza ed è iniziato il percorso di cura verso l’ospedale, si è messa in conto la possibilità di non vedere più i propri familiari e questo ha aumentato il timore della solitudine, il senso di abbandono, ma soprattutto la paura della morte. In un certo senso, sai che è lì, che ci sei vicino e che potresti non tornare indietro”, conclude Bassan.Un medico indossa i dispositivi di sicurezza per trattare il paziente (LaPresse)
La psicoterapia come cura del trauma
Per “guarire” dalla condizione di malato, per la psicologa è indicato intraprendere un percorso di psicoterapia: “Se un trauma non viene elaborato correttamente può ripresentarsi dopo anni in seguito a elementi associativi. E quindi può capitare che, lì per lì, al paziente sembri di aver gestito abbastanza bene i postumi della malattia. Ma se lo choc non è stato trattato in modo adeguato, può capitare che la persona si ri-traumatizzi, magari quando ad ammalarsi è qualcuno di vicino”. Come spiegato da Bassan, per superare questo tipo di conseguenza emotiva, si può ricorrere all’Emdr, una tecnica di psicoterapia basata sul movimento oculare. “Si usa anche con i terremotati – racconta la terapeuta – ed è basata sulla stimolazione bilaterale, dove le informazioni che tu hai immagazzinato durante il tuo evento traumatico vengono rielaborate in modo funzionale. Semplicemente viene trattato il ricordo traumatico e da lì si procede e si va avanti. Direi che è la tecnica più efficace per tutti i traumi, soprattutto per i più gravi”.
I timori (diversi) dei pazienti giovani e anziani
Anche se sembra impossibile, timori e conseguenze sull’esistenza dopo il Covid-19 possono variare anche in base all’età dell’ex malato. Questi perché, come chiarito dalla psicoterapeuta, un giovane si trova improvvisamente di fronte alla possibilità di morire, elemento quasi mai preso in considerazione prima. L’anziano, invece, è già sceso a patti con questa eventualità: “Nel primo caso prevale l’idea di non vivere più tutto quello che la vita può riservare e quindi ci troviamo di fronte a una preoccupazione legata alla perdita di occasioni. Nei pazienti più anziani, invece, siccome l’esistenza è già stata in gran parte vissuta, l’angoscia riguarda piuttosto il dover lasciare i propri cari e rendersi conto che può essere arrivato il momento di salutare i familiari”.Un’anziana indossa la mascherina (Fotogramma)
I consigli ai guariti
Prendersi cura di sé, seguire un percorso psicologico volto a riorganizzare i vissuti emotivi e psicologici e fare molta attenzione alle proprie emozioni sono, per la psicologa, i consigli più utili per gestire questa nuova convalescenza: “Dal mio punto di vista è importante non sottovalutare l’impatto che questa esperienza ha avuto nella propria esistenza, non avere paura a chiedere aiuto a un esperto che ci può guidare nel percorso di guarigione e dare ascolto ai propri stati d’animo, prendendosene cura”.
La costante dei pazienti: la vita che scorre e il senso di incertezza
Come riportato dalla dottoressa Bassan, quasi tutti gli ex pazienti che sono stati ricoverati e hanno avuto necessità dei dispositivi sanitari per agevolare la respirazione, come per esempio il casco Cpap, raccontano che “sotto quel casco ti scorre tutta la vita davanti, come se in quel momento prendessi coscienza di tutto quello che hai vissuto e delle cose che contano davvero”. Come ha spiegato la psicoterapeuta, “l’incertezza e quel senso di non sapere restano nel tempo”: “Tra le persone che sono state malate, si è registrato di frequente il timore di morire da soli, l’elemento che fa più paura agli esseri umani. A noi terapeuti, gli ex malati raccontano continuamente della ricerca degli occhi di chi li ha curati, perché il senso di solitudine è stato troppo forte”.
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