Dalla guerra sul 5G al conflitto armato

I silenzi e le omissioni cinesi sul Coronavirus sono solo la goccia capace di far traboccare il vaso. La guerra vera, quella capace di degenerare in autentico confronto militare, è già in embrione sul fronte marittimo del Sud Pacifico e su quello tecnologico del G5.

Sono le due sfide su cui la Cina non può arretrare e su cui gli Usa non possono concedere spazio. Entrambe sono direttamente connesse alla geopolitica di potenza e alla strategia globale delle due superpotenze.

Far entrare la Cina nell’impiantistica occidentale del G5 significa mettere a rischio i settori della difesa basati sulle nuove piattaforme della Rete. Per capirlo, anche in relazione alla delicata posizione italiana, basta pensare alla commessa con cui Fincantieri s’è aggiudicata il progetto per la costruzione di una nuova fregata lanciamissili della Marina militare Usa. Un progetto che rischierebbe di cadere nelle mani di Pechino se la piattaforma G5, essenziale per il suo sviluppo, fosse affidata ai cinesi di Huawey. Proprio questo scenario navale ci proietta sul teatro del possibile scontro militare, ovvero quel fronte del Mar Cinese Meridionale dove le flotte di Pechino e di Washington si fronteggiano già da cinque anni. Martedì il segretario alla Difesa Usa Mark Esper ha rivelato che il cacciatorpediniere Uss Barry è stato intercettato ed «espulso» mentre navigava nelle acque intorno alle isole Paracelso, un gruppo di scogli e atolli conteso da Cina e Vietnam. E ad alimentare i venti di guerra s’aggiunge il rapporto di un centro studi del Ministero dell’Intelligence cinese incentrato proprio sul rischio di uno scontro militare con gli Usa.

Il rapporto, presentato un mese fa al Presidente Xi Jinping, accusa Washington di esacerbare il duello sul Coronavirus alimentando una propaganda anti-cinese capace di tradursi in una guerra aperta. Una guerra destinata inevitabilmente ad accendersi nella polveriera marittima racchiusa tra i territori di Cina, Vietnam e Malesia a est e di Taiwan, Borneo e Filippine a ovest. In quel tratto d’oceano Pechino persegue da oltre un decennio quella «strategia dei nove tratti» con cui rivendica il controllo degli arcipelaghi delle Pratas, delle Paracelso e delle Spratney e punta all’egemonia militare e commerciale su tutto il Pacifico meridionale. Una strategia perseguita creando vere e proprie isole artificiali su cui vengono costruite piste d’atterraggio e bunker difesi da sistemi radar e impianti missilistici. La sentenza della Corte dell’Aya che nel 2016 ha accolto i reclami delle Filippine sancendo l’infondatezza delle rivendicazioni cinesi ha offerto a Washington il pretesto per lanciare i cosiddetti pattugliamenti per la «libertà di navigazione» spingendo la sua Marina al limite delle acque rivendicate da Pechino. Operazioni condotte sul filo del rasoio da cui può scaturire la scintilla di un conflitto, ma considerate indispensabili per negare a Pechino il controllo di territori che come afferma Esper «semplicemente non gli appartengono». Ma quei temerari pattugliamenti sono anche l’unico modo per preservare la credibilità di una superpotenza americana che per mantenere il controllo del Pacifico Meridionale deve innanzitutto garantire la sovranità di alleati come Taiwan, Giappone, Filippine e Corea del Sud. E ora anche quella di un ex nemico come il Vietnam. Quella rete di alleanze rappresenta l’ultima vera superiorità dell’America. Per conservarla Washington può soltanto osare continuando a sfidare un Dragone che punta al controllo del mondo, ma resta un gigante solitario, temuto ed assai poco amato.

il giornale.it

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