I rischi da evitare nello sviluppo degli “Eurobond”
Si fa presto a dire Eurobond: per quanto la mutualizzazione del debito tra i Paesi comunitari appaia la strada da percorrere per permettere all’Unione un’uscita ordinata dalla crisi economica causata dall’epidemia di coronavirus aggrapparsi al totem del debito comune può divenire un rischio.
Se per Eurobond intendiamo la proposta di titoli comuni all’Eurozona per ridurre e far convergere i rischi di rendimento dei singoli Paesi a un minimo comun denominatore europeo si può affermare che tra il 2010 e il 2011, quando Giulio Tremonti e il governo Berlusconi IV portarono avanti la battaglia per l’introduzione di tale misura, essi avrebbero avuto pienamente senso. Mancava l’azione equilibratrice della Banca centrale europea, c’era la spada di Damocle dell’austerità, la speculazione devastava i titoli di Stato di Paesi come Italia, Grecia, Spagna, Portogallo.
Oggi un’eventuale misura volta a introdurre titoli denominati in maniera comune dovrebbe dipendere dai fini dell’intervento e dalle modalità di emissione prima di essere giudicata in maniera definitiva. Sarebbero ad esempio, casi diversi quelli di Eurobond finalizzati un loro sfruttamento per il rafforzamento di istituzioni come la Banca europea degli Investimenti (Bei) o per porre in essere programmi d’assistenza o quelli garantiti in ultima istanza da Paesi membri dell’Eurozona, con i loro bilanci nazionali, che provvederebbero a accettare condizioni per ottenere i fondi del debito mutualizzato e dovrebbero, al tempo stesso, finanziare il veicolo emittente per permettergli di pagare gli interessi sugli Eurobond stessi.
Una sorta di “Mes 2.0”, in quest’ultimo caso. Sono tante le incognite che aleggiano sulla possibilità degli Eurobond. I Paesi che per essi più premevano, come l’Italia, si sono presentati al tavolo delle trattative privi di armi negoziali reali e hanno finito per cedere, nell’ultimo Eurogruppo, alla marea montante dei Paesi del fronte del rigore. Con un arsenale così spuntato, il rischio che la proposta possa essere ritorta contro Roma e che gli Eurobond finiscano per apparire, dopo il prossimo Consiglio Europeo, in una forma beffa con condizionalità simil-Mes va assolutamente evitato.
Del resto, l’Unione ha già messo in campo strumenti che aiutano a una convergenza tra i vari sistemi. L’acquisto titoli della Bce, ad esempio, calmiera gli spread e assicura i debiti pubblici di molti Paesi membri. La Bei, a sua volta, finanzia programmi pubblici in infrastrutture, costruzioni, reti e altri asset strategici. Allo studio dei Paesi membri c’è ora il Recovery Fund, pensato soprattutto dalla Francia come “moltiplicatore” della potenza finanziaria dell’Ue. Il Recovery Fund, per interposta persona, potrebbe emettere strumenti comuni di matrice simile a quella degli Eurobond. L’irrigidimento dell’Olanda, capofila dei falchi, contro il suo sviluppo è un punto a favore della sua relativa convenienza, rispetto al Mes, per i Paesi dell’Europa mediterranea.
Il punto sta però ovviamente nelle finalità che il Recovery Fund si prefiggerà. Se emetterà bond da un lato e prestiti agli Stati convenienti per i riceventi dall’altro, sarà un conto. Se invece chiedesse contributi per coprire il costo degli Eurobond e il loro futuro rimborso, i rischi di “memorandum” e condizionalità di vario tipo aumenterebbero. L’inutile sessione di votazioni al Parlamento Europeo, organo incapace di prendere decisioni esecutive su questioni così importanti, non ha aiutato a schiarire i termini del problema. In realtà visibili in maniera cristallina: prima del nome e dello slogan delle misure conta il loro contenuto reale.
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