Eurobond: l’ennesima trovata per cedere sovranità all’Ue
Roma, 29 mar – Eurobond sì, eurobond no. Con tutto il corollario di spaccatura, consumatasi all’ultimo consiglio Ue, tra nazioni del nord e del sud. Tanto da costringere ad una faticosa opera da tela di Penelope la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: dopo averla esclusa, sembra aver rassicurato che l’opzione (al pari delle altre) rimane sul tavolo, sia pur “entro i limiti dei trattati”. Al di là del dibattito in corso, l’ipotesi di affidarsi agli eurobond – che hanno assunto in queste settimane il nome di “coronabond” – resta comunque, al pari di quella di ricorrere al Mes, poco desiderabile.
Una vecchia storia
Di eurobond si era cominciato a parlare nel 2011. In quell’anno, drammatico per la crisi dei debiti sovrani (e per le conseguenze politiche che ne scaturirono), iniziarono a circolare le prime proposte relative all’emissione di obbligazioni comunitarie. Varie furono le idee in tal senso (compresa quella di garantirle dando in pegno quote delle nostre società strategiche, ovviamente a firma Prodi), tenute insieme da un punto: mettere in comune il debito – quantomeno quello di nuova emissione – ponendo a congiunta garanzia tutte le nazioni dell’eurozona.
Se è inutile dire che i più arcigni avversari della mutualizzazione sono le nazioni (che si considerano) più “virtuose” – Germania e Olanda in testa, oggi come allora a capo della fronda – questo non significa in automatico che l’ipotesi eurobond sia apprezzabile. Tutt’altro.
Eurobond: l’ennesima cessione di sovranità
Anzitutto per un mero discorso “dimensionale”. A quanto ammonterebbe l’emissione di eurobond/coronabond? Una cifra ufficiale non è mai stata messa sul piatto, né si è deciso quanto le singole nazioni potrebbero attingere. Un parametro puramente teorico potrebbe essere, così come è avvenuto per gli acquisti della Bce nell’ambito del Quantitative Easing, il capitale della stessa banca centrale. Questo significherebbe però che la Germania, detenendo una quota dell’Eurotower del 17% rispetto ad esempio all’8% Spagna, otterebbe praticamente il doppio degli introiti. E gli dèi solo sanno quanto Madrid abbia, ad oggi, disperatamente molto più bisogno di Berlino.
C’è poi il capitolo delle spese da finanziare con queste risorse. Se sicuramente possono essere ricomprese quelle per la sanità (volendo restringere: solo quelle relative all’epidemia), non è detto che tutti gli impegni accessori vi rientrino senza colpo ferire. I sostegni alla disoccupazione, ad esempio, potrebbero finire nel calderone? E i sostegni al reddito? E gli investimenti necessari a ripartire dopo i mesi di serrata forzata?
La risposta a queste domande sta nell’architettura – veniamo così all’ultimo punto – con cui i coronabond verranno pensati. E qui iniziano i veri dolori perché, se di obbligazioni comunitarie parliamo, ne consegue che sarà Bruxelles a gestirle. Le strade a questo punto sono due. La prima è il Mes, che per trattato istitutivo (per finanziarsi opera proprio emettendo obbligazioni sul mercato) sembra già costruito allo scopo. La seconda è creare, se non un vero e proprio ministero dell’Economia Ue, qualcosa che ci vada di molto vicino. L’ennesima struttura burocratica, magari con autonomia di spesa, cervellotica nei meccanismi ed elefantiaca – quindi lentissima, come si insegna la storia del consesso europeo – nel decidere. Quale che sia la strada intrapresa, all’orizzonte si vede solo una ulteriore cessione di sovranità.
Filippo Burla