“Ecco il pronto soccorso, agli alpini bastano 52 ore. Salverà anche i medici”
Bergamo – «Abbiamo iniziato 52 ore fa non appena è stato deliberato il progetto definitivo e se tutto andrà come prevedo l’ospedale sarà operativo da settimana prossima.
Ma non sarà un ospedale da campo sarà un pronto soccorso con pannelli in muratura in grado di trattare situazioni da terapia intensiva, sub intensiva e post subintensiva. Molto diverso insomma rispetto all’ospedale da campo di cui si parlava inizialmente». Lui si chiama Dario Rizzini, ha 54 anni, e nella vita fa il consulente strategico in ambito finanziario. A tempo perso, invece, si dedica ai miracoli. Il più urgente è in corso alla Fiera di Bergamo. Qui Rizzini, in veste di Direttore sanitario dell’Ana (Associazione nazionale alpini) sta cercando di metter su un vero e proprio ospedale per i pazienti da Coronavirus in poco più di una settimana. Se tutto andrà secondo i piani domani sabato 27 marzo i 140 volontari termineranno, dopo soli tre giorni di lavoro, gli impianti elettrici, le condutture idrauliche e i principali collegamenti delle stanza in cartongesso costruite all’interno della Fiera di Bergamo. Poi mancheranno solo letti, computer e attrezzature indispensabili a garantire il lavoro dei cento fra medici e infermieri in grado di assistere – assieme a 60 tecnici – circa 150 pazienti. «Grazie ai volontari dell’associazione alpini e agli associati della Confartigianato di Bergamo che si sono messi a disposizione gratis lavoriamo a ciclo continuo 24 ore al giorno e contiamo proprio di farcela».
Perché hanno chiamato voi alpini dell’Ana?
«L’Ana nella parte sanità alpina di cui sono direttore generale ha due ospedali da campo, uno leggero e uno maggiore. Quest’ultimo è la più importante struttura campale a livello europeo in ambito civile. Inoltre abbiamo le tende e per questo siamo stati contattati sin dall’inizio. Con l’evolversi della situazione il progetto è cambiato, ma è rimasto nelle nostre mani perché da alpini sappiamo fare anche questo».
L’epidemia però è iniziata un mese fa.
«Io sono stato attivato sei giorni fa quando ci è stato comunicato il progetto definitivo. Nello stesso giorno ci hanno chiesto di modificarlo quattro volte. Cinquantadue ore fa (le sei di mattina di martedì, ndr) non appena ci è stato comunicato il progetto definitivo abbiamo iniziato a costruire».
Non era meglio usare l’ospedale da campo?
«Bisogna sempre pensare al peggio. Se all’epidemia si aggiunge una calamità come un terremoto quello resta a disposizione».
Nel nuovo ospedale lavoreranno gli alpini?
«Non solo. Dal 4 febbraio oltre 150 dei nostri volontari sono già impiegati nel controllo degli aeroporti o nelle aziende sanitarie. Quindi ci saranno alpini, medici dell’ospedale San Giovanni XXIII di Bergamo e personale sanitario russo».
Eravate pronti ad una sfida del genere?
«Siamo assolutamente pronti a tutte le sfide convenzionali visto che da 35 anni operiamo in Italia e all’estero, ma un’epidemia come questa non l’ha mai affrontata nessuno. Qui l’obbiettivo è contenere il contagio tra i sanitari che sono risorse finite da non compromettere. Quindi abbiamo dovuto inventarci un progetto da pandemia con percorsi definiti tra aree verdi, gialle e rosse divise da zone di decontaminazione, vestizione e svestizione su più livelli».
Come vive questa situazione?
«Sono bresciano e quindi come tutti i lombardi la vivo a volte con paura, a volte con ansia. Ma lavorare significa affrontare la paura. Chiunque ha coraggio ha anche paura. La differenza sta nell’affrontarla e nel farlo con attenzione. Non si può affrontare un nemico subdolo come il Coronavirus senza le difese indispensabili a combatterlo. Evitare il contagio di dottori e infermieri significa contenere la carenza di personale che stiamo registrando. Ma il vero problema sarà il dopo. Questa situazione sta demolendo tutte le certezze nel futuro. La vera ricostruzione sarà la riconquista della fiducia».
É un consiglio alla politica?
«É un avviso per il futuro. Oggi i volontari dell’Ana sono ovunque, ma se i politici non troveranno il modo di far indossare ai giovani il cappello alpino tra 15 anni potremmo non esser più in grado di operare. Non chiediamo la reintroduzione della naja, ma di prevedere un servizio in protezione civile o in ambito militare. Altrimenti tra 15 anni potremmo trovarci sguarniti».
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