Gli infetti “seguiti” da app e telefonini: il governo tentato dal metodo coreano
Che non esistano ricette magiche per sconfiggere il virus è ormai chiaro. Resta però il fatto che la Corea del Sud si è trovata nel mezzo di un’emergenza che fino a pochi giorni fa era seconda solo a quella cinese e ha adottato un approccio in parte diverso dal nostro.
Che comincia a interessare le autorità italiane.
A Seul il contagio è esploso dopo che la setta religiosa Shincheonji ha spinto i suoi 300mila seguaci ad attuare di nascosto (perfino dai familiari) un rito di purificazione da condurre mano nella mano. A fronte di una conseguente rapida diffusione del virus, la Corea ha seguito l’istinto di un Paese che nutre una passione smodata per le tecnologie, attuando una massiccia campagna di tamponi (ventimila test al giorno) e l’uso di tecnologie cosiddette di geotracking, basate sui dati del gps contenuto in ogni smartphone. In sostanza, si può controllare a distanza dove va e chi incontra il sospetto contagiato. E un’app sul telefonino avvisa del rischio chi si trova a 100 metri di distanza.
Si tratta evidentemente di una pratica di controllo di massa abbastanza accettata dalla società coreana. Ma in quella italiana andrebbe certamente verificata alla luce delle normative sulla privacy. E, dopo una prima fase in cui pare che la possibilità di adottarla non sia stata nemmeno stata presa in considerazione, ora almeno «sono in corso interlocuzioni», dice al Giornale una fonte istituzionale. Nei giorni scorsi l’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di Strategia alla Sda Bocconi, e Alberto Fuggetta, direttore del Cefriel, centro di ricerca sull’innovazione del Politecnico di Milano, hanno presentato alle autorità la proposta di adottare il sistema di «georeferenziazione» che avrebbe sostituito l’autocertificazione fatta con i modelli riempiti a mano, così cara alla burocrazia all’italiana. Finora la richiesta non ha avuto seguito ma si sarebbe aperto uno spiraglio e nel Dpcm del 9 marzo compare una deroga alle norme sulla privacy per la raccolta dei dati sanitari, anche se non si fa cenno all’uso a scopo di tracciamento. Del resto, ancora lo scorso 9 marzo la Corea del Sud aveva più contagi dell’Italia e pochi morti, cinque giorni dopo l’Italia è a 2500 contagi al giorno contro i 110 di Seul. Facile capire perché l’esperienza stia attraendo interesse. Il governo israeliano, altro Paese tecnologicamente avanzato, ha annunciato che farà ricorso a questo genere di strategie informatiche contro il virus.
Maffè e Fuggetta parlano di un modello basato sui «big data» che garantisce l’anonimato. Ma gli esperti predicano cautela. «In Corea del Sud – dice Francesco Paolo Micozzi, docente di Informatica giuridica all’Università di Perugia- sono anche stati rivelati dettagli in grado di rendere individuabili i contagiati: strumenti di analisi di dati personali sono consentiti dalle norme sulla privacy, ma solo se i dati sono trattati esclusivamente da soggetti istituzionalmente deputati alla gestione dell’emergenza e soltanto se i dati relativi allo stato di salute non vengano diffusi. E, infine, se in seguito, vengano cancellati, garantendone la distruzione: l’emergenza non può mettere in stand-by un diritto fondamentale quale quello alla protezione dei dati». Eccesso di cautela? La stessa esperienza coreana segnala i rischi. Un reportage della Bbc segnala che l’app in uso nel lontano Paese fornisce informazioni molto dettagliate. Del tipo: «Un 43enne residente nel distretto di Nowon è risultato positivo», aggiungendo che ha contratto il virus dal suo istruttore nel «corso per molestatori sessuali». Per integrare i dati sugli spostamenti, in alcuni casi sono stati usati quelli di carta di credito e telecamera del telefono. Contro il virus vale proprio tutto?
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