Il calvario del medico intubato “Si suda, sembra di soffocare”
Cambiare le proprie abitudini di vita e restare in casa per l’intera giornata è sicuramente complicato. Ma in realtà chi sta compiendo veri sacrifici enormi e sta mettendo in atto una serie di miracoli sono i personali medici e sanitari: il loro compito è quello di salvare le vite altrui, ma non sono mancati i casi in cui anche loro si sono dovuti sottoporre alle cure del caso per guarire.
Così come è successo ad Angelo Vavassori, che dal suo letto di terapia sub-intensiva ha raccontanto in prima persona come si vive nel pieno dell’emergenza Coronavirus: “In poche ore sono passato da 15 a 40 respiri al minuto. Non mi entrava più aria nei polmoni e ho quasi perso la vista. Se sono qui lo devo ai miei colleghi, eroi non retorici”. Il medico grazie a loro si è sentito più tranquillo anche nei momenti difficili: la sua storia “può aiutare molti a non lasciarsi andare”.
A partire dal 22 febbraio ha curato i primi infettati e sei giorni dopo il suo reparto di rianimazione è stato riservato a loro. Sabato 29 gli è salita un po’ la febbre; lunedì mattina comunque stava bene ma in serata ha avuto 38,9°C. Successivamente si è messo a ragionare: “Se il Covid-19 mi aveva attaccato, non poteva averlo fatto quando, protetto, curavo gli altri infettati. È successo prima: a contatto con i miei pazienti chirurgici”. Perciò, mentre la terapia intensiva scoppiava, si è chiuso in una stanza di casa. Per 48 ore si è nutrito con il cibo che la famiglia gli ha lasciato davanti la porta chiusa, che ritirava con guanti e mascherina per poi disinfettare tutto. Ma purtroppo non è bastato: “Mia moglie e il figlio più grande di 18 anni sono rimasti contagiati. I gemelli di 14 anni e la bambina di 11, per ora no”.
“State a casa”
Mercoledì 4 marzo si è sottoposto al tampone e giovedì è risultato positivo: la sera ha avuto difficoltà nella respirazione, ha perso olfatto e gusto e iniziava a vedere sempre meno. Per la carenza di ossigeno sono saliti anche mal di testa e dissenteria. Ha provato a telefonare in ospedale ma non c’era posto: “Sapevo di non poter resistere a lungo. Respiravo, ma nei polmoni non entrava più ossigeno. Alle 23 mi ha chiamato un collega per dirmi che si era liberato un letto. La radiografia ha confermato che la polmonite era scoppiata”.
Nell’intervista rilasciata a La Repubblica, il rianimatore nell’ospedale di Bergamo ha raccontato nel dettaglio tutte le tappe che hanno portato alla sua guarigione: “La dispnea toglie totalmente il fiato. Mi hanno infilato subito nel casco Peep a pressione di fine respirazione positiva”. Ha tentato di farcela senza essere sedato e intubato, ma comunque si perde conoscenza e non è stato facile. Il medico ha fatto sapere che il momento più duro è stato l’inizio: “Nel casco della ventilazione il rumore è assordante, il flusso dell’ossigeno è caldo. Si suda e sembra di soffocare ancora più di prima. Invece un po’ alla volta senti che se tiri, entra aria. Ho temuto di non rivedere mia moglie e i nostri quattro figli”. Gli è stato dato il cocktail di antiretrovirali previsto dal protocollo che serve “a concedere tempo agli anticorpi, che inglobano e bloccano il virus prima che comprometta i polmoni. I macrofagi assorbono poi sia il virus morto che gli anticorpi”.
Il medico ha voluto lanciare un messaggio a chi sta lottando per sopravvivere: “Non fatevi paralizzare dalla paura. Bisogna restare tranquilli e affidarsi ai medici. Ti tirano fuori, ogni polmonite regredisce”. Però ha ammesso che la sua preoccupazione principale è un’altra: “Se penso ai medici e agli infermieri del nostro Paese mi commuovo. Siamo allo stremo e sappiamo che la battaglia resta lunga”. Dunque ha chiesto a tutti di “aiutarci restando in casa. È così che ci si sta vicino”.
il giornale.it