Coronavirus e cialtroneria: ecco perché l’Italia non sa mai decidere
Roma, 2 mar – L’Italia è uno Stato senza decisori. Nessuno decide, nessuno esercita la funzione centrale della sovranità (che, quindi, latita innanzitutto per tare endemiche del nostro sistema). La crisi del coronavirus sta evidenziando quest’allergia tutta italiana al decisionismo in modo drammatico e plateale. Uno Stato degno di questo nome avrebbe immediatamente indetto, se non lo stato di emergenza di cui blaterava giorni fa Giorgio Agamben, quanto meno un centro di comando unico che coordinasse tutte i provvedimenti sanitari, quelli di ordine pubblico, la comunicazione e la gestione anche politico-economica della crisi (insomma, quella che nel politichese aggiornato viene detta “cabina di regia”). Abbiamo invece assistito a comunicazione contraddittoria, centri decisionali disseminati, lotta fra poteri dello Stato, scontri tra prime donne, chiacchiere in libertà, il tutto all’insegna di un vivere alla giornata, di un tirare a campare che di democristiano ha ormai solo il cinismo.
La stessa, incredibile gestione delle gare di serie A rinviate in extremis dopo plurimi cambi di direzione grida vendetta e avrebbe dovuto suscitare una profonda riflessione sulla governance (per usare un altro termine feticcio) del nostro calcio, cosa che ovviamente non è accaduta perché la questione è stata immediatamente declinata secondo punti di vista tifosi, ipocriti e complottardi. Ma dato che il calcio non è solo un gioco, bensì un’industria che muove miliardi e una passione dal fortissimo portato simbolico, il disastro organizzativo a cui stiamo assistendo è un disastro esemplificativo di un certo modo di (non) governare, di (non) decidere, di (non) gestire.
Dove nasce l’allergia italiana al decisionismo?
Ma perché l’Italia è così allergica alla decisione? Ci sono vari motivi. Il primo ha a che fare con la nostra Costituzione e con l’assetto istituzionale che essa disegna, pensato per avere un governo debolissimo e un Parlamento onnipotente. Per “guarire” l’Italia dal fascismo, si è pensato bene di vaccinarla dal decisionismo. Abbiamo quindi un sistema che discute, che media, che litiga, che cerca il compromesso, che ascolta, che dibatte, che chiacchiera, che si incarta, che si blocca, ma che certamente non decide.
L’Italia repubblicana è, del resto, sin dalle origini, uno Stato a sovranità limitata, eterodiretto da plurimi organismi sovranazionali. Questo condizionamento ha disabituato la politica italiana all’arte della decisione. Così come i secoli pre-unitari, con le dominazioni straniere che si sono succedute sul nostro territorio, hanno abituato l’italiano alla diffidenza verso il potere, all’arte di arrangiarsi, al cinismo furbastro, allo stesso modo i diktat internazionali post-unitari hanno selezionato una classe dirigente che riflette gli stessi difetti.
Un po’ per le ragioni appena spiegate, un po’ per una serie di derive sociologiche e culturali, non abbiamo neanche sviluppato una classe dirigente degna di questo nome, con un drastico crollo della qualità umana a partire dalla cosiddetta seconda repubblica. Di questa discesa verso la mediocrità, Giuseppe Conte rappresenta indubbiamente il punto più basso. Ma è tutto l’attuale governo che non funziona, che ha il solo scopo di durare per durare. Del resto si tratta di un esecutivo sorto con lo scopo politico dichiarato di “non mandare al governo Salvini” e che non ha uno straccio di linea, di idea, di direzione. È un gioco che funziona male per l’ordinaria amministrazione, figurarsi per l’emergenza.
Strapotere giudiziario e federalismo regionale
Il vuoto di potere politico è stato inoltre riempito non solo da lobby, oligarchie, mafie e mafiette, consorterie varie, ma anche dalla crescita abnorme di un altro dei poteri dello Stato: quello giudiziario. In Italia i giudici fanno e disfanno e la politica subisce. La babele burocratica e la superfetazione del nostro apparato di leggi fanno il resto. Il politico italiano, oggi, sa che non può muoversi senza inciampare in un codicillo o nel ghiribizzo di un pm particolarmente zelante. Questo fa sì che, in casi di emergenza, prevalga un principio di precauzione esasperato: se apri le porte di uno stadio e poi dieci tifosi si prendono il raffreddore non è che un giudice poi ti incrimina per strage?
A completare il quadro, poi, c’è la caricatura di federalismo regionale che abbiamo architettato in questi anni, con i presidenti di Regione, arbitrariamente promossi a “governatori”, che fanno il bello e il cattivo tempo, che sono nella posizione di ricattare lo Stato, in base a esigenze esclusivamente locali. Peccato che, a dispetto di una certa vulgata, la nostra classe dirigente locale non sia affatto migliore di quella nazionale (esistono, semmai, tessuti produttivi locali che funzionano, che è un’altra cosa).
Tutto questo ci porta alla situazione kafkiana che stiamo vivendo. Colpa del coronavirus, certo. Ma lo Stato italiano era già malato da tempo.
Adriano Scianca