Morte Duccio Dini: per il pm, che chiede fino a 22 anni, fu vittima di “incultura zingara”
Era in motorino quel maledetto 10 giugno 2018. Stava andando a lavoro quando, all’improvviso, fu travolto da un’auto. Duccio Dini, 29 anni, perse la vita così, in un attimo. A investirlo fu una macchina coinvolta in un inseguimento tra famiglie rom residenti nel campo nomadi del Poderaccio, a Firenze. Viaggiavano a 100 km/h e per il povero Duccio non ci fu nulla da fare. Nel processo contro i sette imputati il pm ha chiesto di condannare tutti per omicidio volontario con dolo eventuale. Richieste pene da 9 a 22 anni.
Il tragico incidente
Come emerse dai rilievi della polizia municipale le auto coinvolte erano queste: una Lancia Libra guidata da Antonio Mustafa; una Volvo su cui viaggiavano Remzi Amet, Remzi Mustafa, Kjamuran Amet e Dehran Mustafa; una Opel Vivara su cui si trovavano Emin Gani e Kole Amet. Le tre auto inseguivano la Opel Zafira di Bajram Rufat, 43 anni, sposato con la figlia di Remzi Amet. Erano riuscite più volte a speronarla finché l’utilitaria, senza più controllo, si era schiantata contro un palo e poi contro un albero, incendiandosi. Pur essendo rimasto ferito Rufat riuscì a salvarsi. La Volvo dopo aver sbandato urtava un’auto in transito e si schiantava contro il motorino di Duccio. Portato all’ospedale fiorentino di Careggi, già in coma, Duccio morì qualche ora dopo.
“Vittima incolpevole di una incultura zingara”
Nella sua requisitoria il pm Tommaso Coletta ha detto che Duccio “fu vittima incolpevole di una incultura zingara”, basata “su un senso troppo forte della famiglia e su un atteggiamento di spregio verso la figura femminile”. Rivolgendosi alla corte ha aggiunto queste parole: “Andate a sentenza non per vendicarlo”. Inoltre ha chiesto anche la confisca delle auto rimaste coinvolte nell’inseguimento e la trasmissione degli atti alla procura per falsa testimonianza riguardo a un altro nomade, accusato di aver dichiarato il falso in aula, ossia di aver accompagnato Renzi Amet sul luogo dell’incidente, sostenendo dunque che l’uomo non fosse stato coinvolto nell’inseguimento.