“Tito voleva eliminare tutti: contro di noi solo terrore”
Quello di Giovanna Martinuzzi, quasi 90 anni, è un sogno ricorrente. Si rivede ragazzina mentre cammina per i vicoli di Albona (oggi Croazia). Il paesaggio è rimasto lo stesso della sua infanzia, eppure non riesce più a riconoscere nulla di familiare.
Si sente a disagio, le manca persino l’aria. Passo dopo passo la strada diventa sempre più stretta, quasi la volesse inghiottire. Si risveglia di botto, con il senso di claustrofobia addosso. “Sono settant’anni che faccio lo stesso incubo”, racconta.
Giovanna è un’esule, aveva appena 13 anni quando la sua famiglia è stata costretta la lasciare l’Istria per scampare alle persecuzioni titine. “Non potevamo più continuare a vivere lì, non sapevamo nulla delle foibe ma vedevamo la gente sparire”. La lunga stagione di terrore, iniziata con il dilagare dei partigiani jugoslavi nelle terre che si affacciano sull’Adriatico orientale, mieterà tra le 7 e le 12mila vittime. “Abbiamo passato un anno nel campo profughi di Serviliano, nelle Marche, e poi siamo venuti qui”, dice indicando ciò che la circonda. Un crocicchio di strade che portano il nome della sua gente. Siamo nel quartiere Giuliano-Dalmata di Roma, in zona Laurentina, il più grande “monumento” dell’esodo che esista in Italia. Quando Giovanna è arrivata nel quartiere, non c’erano case né strade, solo dei vecchi padiglioni diroccati. Erano quelli degli operai che lavoravano alla costruzione dell’Eur, abbandonati con lo scoppio della guerra. Li occuparono un pungo di profughi verso la fine del 1948, già l’anno successivo le presenze salirono a mille unità.
“Era un luogo isolato, senza infrastrutture né servizi, ma era sempre meglio dei campi profughi”, ragiona l’anziana, che non si è mai allontanata dal quartiere. “Ormai – spiega – è la mia patria”. In quegli anni difficili, in cui gli italiani del confine orientale venivano guardati con diffidenza ed etichettati come “fascisti”, l’ex villaggio operaio si è trasformato in un’isola felice. Una specie di enclave dove ritrovare parenti, amici, vicini di casa. Dove ricostruire la comunità che l’esodo aveva diviso. “Certo, – riflette Maria Ballarin, esule di seconda generazione – con il senno del poi mi rendo conto di aver avuto un’infanzia povera, però c’era un forte senso di fratellanza”. Si viveva tutti assieme, come una grande famiglia, e si parlava la stessa lingua: il dialetto veneto. “Era il regno di noi bambini, trascorrevamo intere giornate a giocare a nascondino”. La realtà, quella dei “grandi”, però, era ben diversa. “I miei – prosegue – non mi hanno mai fatto pesare nulla, solo anni dopo ho scoperto quanto sia stato duro per loro rialzarsi”. “Economicamente eravamo a terra”. Le testimonianze degli esuli trapiantati a Roma: “Confinati in un mondo tutto nostro”Pubblica sul tuo sito
All’epoca lo Stato italiano faceva grande pressione perché i profughi dichiarassero l’abbandono delle loro proprietà. “Tanto ve le requisiscono gli jugoslavi”, dicevano. Con quei beni poi l’Italia ha pagato il suo debito di guerra, e agli esuli? A loro cosa è rimasto? “Solo briciole, dilazionate nell’arco di cinquant’anni”, denuncia Maria, mostrandoci le foto in bianco e nero della casa paterna. Una villa di due piani sull’Isola di Lussino, oggi meta di turismo da tutto il mondo. Lei, che sarebbe dovuta nascere lì, invece, è venuta al mondo in un appartamentino di 55 mq. “Era una delle prime case costruite nel quartiere, per chi veniva dall’esperienza dei padiglioni erano delle regge”, ricorda. Nel corso degli anni e con l’Istituzione dell’Opera Profughi, l’ex villaggio cresce e si trasforma. E nel 1962 entra ufficialmente nella rosa dei quartieri di Roma.
“Un vero miracolo”, ci spiega Marino Micich, esule di seconda generazione e direttore dell’Archivio Museo storico di Fiume. “In tutta Italia sono diverse le zone in cui si è radicata la comunità giuliano-dalmata, ma nessuna è stata istituzionalizzata come è accaduto nella Capitale”. L’assembramento dei profughi, per il governo di allora era una minaccia. Bisognava disperdere e annacquare, cancellare le prove delle barbarie dei vincitori. “Questo – riflette – è stato un modo per sopravvivere nella memoria, una testimonianza incancellabile del dramma della nostra gente”. Soprattutto adesso che i protagonisti di quell’epoca se ne stanno andando. Gente come Romano Sablich, ex ufficiale di Marina classe 1924, uno dei pionieri del villaggio. È scomparso quest’estate, in punta di piedi. Proprio come era arrivato, stanco sporco e affamato dopo un periodo trascorso da invisibile alla stazione Termini. E ha portato via con sé i ricordi, i racconti e le tante fotografie che ci aveva mostrato un pomeriggio di due anni fa.
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