Il ministro Di Maio chiede: “Zaki libero”. Ma il Cairo lo zittisce: “Non è italiano”
L’Italia chiama, ma il governo egiziano non risponde. Peggio, replica alla sollecitazione della Farnesina con uno sconcertante, «Zaki non è italiano»; come dire: è un nostro connazionale, quindi non accettiamo interferenze, fatevi i fatti vostri.
Un pessimo segnale per gli sviluppi futuri di questa storia. Ieri il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha auspicato la liberazione dello studente egiziano Patrick George Zaki, 27 anni, ricercatore all’università di Bologna, arrestato per «terrorismo» all’aeroporto del Cairo. Zaki, attivista per i diritti umani aderente all’Eipr (Egyptian Iniziative for Personal Rights), a Bologna seguiva un master sulla «tutela dell’identità di genere».
Lo studente è stato ammanettato appena giunto nella capitale egiziana con un volo proveniente dall’Italia. Ora il nostro Paese ha chiesto l’inserimento del suo caso all’interno del meccanismo di «monitoraggio processuale» coordinato dalla Delegazione dell’Unione Europea che consente ai funzionari delle Ambasciate UE di seguire l’evoluzione del processo e presenziare alle udienze. Una garanzia «terza» rispetto all’iter legale cui andrà incontro Patrick George Zaki in un Paese inquieto – e inquietante – come quello guidato dal presidente Abdel Fattal al-Sisi. L’omicidio politico di Giulio Regeni e la metodica «soppressione» di ogni voce anti-regime dimostrano che l’Egitto è tutto meno che uno Stato democratico.
Intanto Wael Ghally, l’avvocato egiziano di Zaki, conferma le «torture» subite dall’attivista dell’Eipr. Intervistato da ilfattoquotidiano.it, il legale di Zaki ha parole durissime contro le autorità egiziane: «Alle 4 del mattino di venerdì 7 febbraio Patrick era in fila al controllo passaporti all’aeroporto del Cairo ha raccontato Ghally l’agente si è accorto che su di lui pendeva un mandato di arresto e allora lo ha condotto in una stanza. Quello che è accaduto dopo è un copione che chi si occupa di diritti umani in Egitto conosce bene. Patrick è stato bendato e trasferito in un luogo sconosciuto a circa un’ora di auto dall’aeroporto, per la mia esperienza posso dire che era un edificio dell’Amn el-Dawla (i servizi segreti egiziani ai quali appartengono i 5 uomini iscritti nel registro degli indagati della Procura di Roma per la morte di Giulio Regeni ndr). Era in una stanza con due agenti, è stato picchiato e torturato con l’elettricità. Ma non con il bastone, solo con dei fili in modo che non rimanessero segni. Chi lo ha fatto è un professionista che sa come fare». La testimonianza dell’avvocato prosegue con dettagli che, ovviamente, non trovano conferma tra le fonti governative egiziane: «In questa stanza Patrick ha subito un primo interrogatorio sulla attività di ricerca che da anni svolge con l’Eipr, in particolare sui cristiani copti. Dopo è stato trasferito nella stazione di polizia di Mansoura dove ha subito per 7 ore altri maltrattamenti».
Solo il giorno successivo l’avvocato ha potuto incontrare il 27enne nella Procura di Mansoura. Le accuse sono una sfilza: «diffusione di false informazioni per minare la stabilità nazionale», «incitamento a manifestazione senza permesso», «tentativo di rovesciare il regime», «uso dei social media per danneggiare la sicurezza nazionale», «propaganda per i gruppi terroristici», «uso della violenza». Ma, finora, l’unica «violenza» sembra essere quella degli sicari del presidente Abdel Fattah el-Sisidi. Gli stessi che hanno ucciso Regeni.
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