Renzi: con Salvini per andare alle urne
Giovedì sera, mentre a Palazzo Chigi si consumava l’accordo Pd-5stelle sulla prescrizione, con la benedizione di Giuseppe Conte e l’isolamento di Italia Viva, un Matteo Renzi insofferente si lasciava sfuggire con il suo inner circle la più letale delle minacce, quella che toglie il sonno al premier e al personaggio che interpreta l’anima più governativa del Pd, Dario Franceschini.
Spiegava: «Se debbo essere lasciato solo in una battaglia liberale, se il Pd addirittura rimuove dalla sua memoria la legge Orlando per correre dietro alle follie dei grillini made in Travaglio, se non si accorgono di tutto questo, allora tanto vale che io faccia l’accordo con Salvini per andare ad elezioni all’indomani del referendum sulla riduzione dei parlamentari». Minaccia calcolata, pianificata quella dell’altra sera, o voce dal sen fuggita? Qualunque cosa sia dimostra che Matteo Renzi sull’accordo Pd-5stelle sulla prescrizione non ci sta. Rifiuta, insomma, l’ennesimo papocchio in odor di incostituzionalità. Ma, soprattutto, non accetta la deriva piddina troppo disponibile con i 5stelle per salvare governo e legislatura. La riedizione dell’atteggiamento di Salvini, che, proprio un anno fa, per preservare il governo gialloverde, accettò di dare i suoi voti a quell’obbrobrio che è la legge Bonafede, un provvedimento che per la prima volta nella storia ha fatto arrabbiare contemporaneamente tutti gli avvocati e tre quarti dei magistrati italiani. E in termini più generali l’ex premier e segretario del Pd tenta di opporsi al tentativo di isolarlo, quello che l’altro giorno in una pausa di un convegno organizzato dal Centro studi americani sulla Libia, Massimo D’Alema, consigliere ombra di Liberi e Uguali e di mezzo Pd, descriveva così: «Anche un pesce grosso se gli togli l’acqua… Si spiaggia come le balene».
Proprio nelle stesse ore di giovedì Maria Elena Boschi duellava nel vertice a Palazzo Chigi con Dario Franceschini. Entrambi usavano un linguaggio ruvido, tanto per dare un’idea dell’entità dello scontro, molto diverso da quello che tutti e due sfoggiano abitualmente. Addirittura sulle riserve espresse dalla presidente dei deputati di Italia Viva sull’uso del decreto legge per mettere in pratica l’intesa, scelta che a suo avviso avrebbe fatto storcere la bocca anche al Quirinale, Franceschini nella foga della discussione, per tagliare corto, ha rischiato un sgarbo istituzionale: «Il Quirinale farà quello che dico io». Poi resosi conto della gaffe, ha ridimensionato il suo ego: «Volevo dire che poi sarà il presidente a decidere se firmare o meno». Cose che capitano quando la dialettica politica tocca i fili dell’alta tensione. E l’altra sera tra le anime della coalizione giallorossa è volato di tutto. La Boschi, addirittura, si è sentita rinfacciare dagli astanti per tutta la riunione la stessa accusa: «Maria Elena guarda che hai le stesse posizioni della Lega…». Tant’è che, ad un certo punto, ha risposto piccata: «Non è che questo accostamento mi imbarazzi!».
Ma perché il termometro politico è tornato incandescente? La risposta è semplice: perché il Pd, per amore di governo (e di alleanze), ha preferito salvaguardare il rapporto con i 5stelle, con l’anima massimalista-populista della coalizione, a scapito di quello con l’anima liberale e garantista, cioè con Renzi. Di contro il leader di Italia Viva se vuole aumentare il suo appeal presso l’elettorato moderato, non può ingoiare oggi un’intesa con Bonafede che fa acqua da tutte le parti sulla prescrizione e un’altra domani di marchio illiberale sulla concessione Autostrade. Per non compromettere la sua scommessa politica Renzi deve mutare l’asse di governo, spostandolo dal centro massimalista-grillino verso il centro liberale-riformista. O magari cambiare, in prospettiva, governo (Draghi, Zingaretti o un esponente del Pd che mastichi di economia). Per farlo deve tenere il punto e dimostrare di essere indispensabile, aumentando il peso della sua componente nella coalizione ed evitando che qualche soggetto politico, magari un succedaneo dell’area moderata, che nasca in un rapporto privilegiato con Conte per la salvaguardia della legislatura, renda la sua presenza superflua.
La minaccia elettorale serve all’uopo. Ed è rivolta verso la maggioranza, ma anche verso quella parte della coalizione moderata che teme le urne. Dentro c’è lo sfogo di chi si sente lasciato solo anche da chi dovrebbe condividere certi temi. «Mi sono stufato si è arrabbiato con uno dei forzisti che sta mettendo in piedi un gruppo parlamentare in Senato filo Conte di impegnarmi sui temi liberali e riformisti da solo. Per fare certe battaglie bisogna avere delle truppe in Parlamento. Invece, sono tutti contro di me. Ma ti pare possibile che l’unica preoccupazione del Pd sia quella di evitare che i delusi di questo o quel partito vengano da me? Che lo stesso atteggiamento abbia Conte, che addirittura consiglia Renata Polverini di unirsi con il gruppo dell’ex grillino Lorenzo Fioramonti, invece, di venire da me? E che voi, che dovreste condividere certe battaglie, mi isoliate e miriate a mettere in piedi un gruppo al Senato per diminuire il mio peso nella coalizione di governo? Se è così, se Conte riesce a trovare 20 senatori forzisti per fare la politica di Travaglio, faccia pure. Si accomodi, ma io non ci sto! O altrimenti cambi, per evitare che io faccia davvero l’accordo con Salvini per andare alle urne dopo il referendum. Se si va al voto io prenderò sicuramente il 4%, ma probabilmente di più se nel frattempo mi libererò dalla zavorra di questo governo. Molti di voi, invece, non torneranno in Parlamento!».
Un ragionamento che Renzi ha ripetuto giovedì anche ad un esponente garantista del Pd bisognoso di conforto. «Uno è stato il suo ragionamento può dire ciò che vuole, ma se il Pd per tenere in piedi questo governo è disposto a diventare giustizialista come Bonafede, a gettare la legge Orlando alle ortiche, a ripetere quello che fece Salvini per tenere in piedi il governo gialloverde, io non lo accetterò. Ma ti pare che con il coronavirus, la guerra in Libia, il problema delle infrastrutture, l’economia in crisi, dobbiamo stare appresso alle follie di Bonafede?!».
Insomma, il monito è stato lanciato. Ora il braccio di ferro si allungherà sui prossimi mesi, da qui alle prossime Regionali, visto che in assenza di un compromesso che coinvolga l’intera coalizione (l’unico sarebbe stato un rinvio dell’applicazione della legge Bonafede in attesa della riforma del processo penale) lo scontro sulla prescrizione si svolgerà in diversi momenti sia alla Camera (dove i voti di Italia Viva non sono decisivi), che al Senato (dove sulla carta lo sono). Ma intanto il segnale renziano ha smosso la acque a sinistra come a destra. Franceschini ieri ha posto l’interrogativo a tre quarti del gruppo dirigente piddino: «Secondo voi Matteo fa sul serio o no?». Ricevendo silenzi o risposte contraddittorie. «Qui è stata la sua conclusione dobbiamo accelerare nell’approvazione della legge elettorale proporzionale. Così costringendo tutti a rifare conti e strategie la situazione si stabilizzerà».
E anche il centrodestra ha rizzato le orecchie. Specie in Forza Italia, quella ortodossa e quella in sofferenza, la cui simpatia verso l’attuale premier ha cominciato a scemare. Gianni Letta ha reso più assidui i contatti con gli ambasciatori renziani, mentre Mara Carfagna ha scomunicato i fautori del gruppo parlamentare filo Conte. «Quelli osservava ieri mattina alla buvette di Montecitorio pensano solo a piccoli interessi, a dire la loro su qualche nomina. Sono l’altra faccia della medaglia di quelli che stilano ogni giorno la lista dei garantiti di Forza Italia alle prossime elezioni. Inutile aggiungere sempre più corta…».
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