Libia, guerra del petrolio: Haftar chiude i pozzi (che servono all’Italia)

Altro che compromessi e pace. Mentre a Berlino ci si accinge a discutere su come evitare alla Libia un futuro di guerra e di ingerenze straniere, il generale Haftar getta sul piatto della contesa per il potere nel Paese nordafricano l’arma più pesante: il petrolio.

L’autoproclamato Esercito Nazionale Libico (Lna), cioè l’armata che prende ordini dal cosiddetto «uomo forte della Cirenaica», ha imposto ieri il blocco della produzione e delle esportazioni da tutti i porti e i terminali della Libia centrale e orientale, quelli cioè controllati dalle forze fedeli a Haftar. Una mossa dagli effetti devastanti per l’economia libica, che dipende in modo assoluto dall’export del greggio. Si calcola che in questo modo la produzione di petrolio verrà ridotta di circa 800mila barili al giorno, per un valore stimato di 55 milioni di dollari che ogni giorno non finiranno nelle casse dello Stato.

La National Oil Corporation (Noc), la compagnia petrolifera unica in Libia, ha condannato il gesto come un grave atto di prepotenza che si trova costretta a subire. «Il petrolio e gli impianti petroliferi appartengono al popolo libico e non sono carte da giocare per risolvere questioni politiche», ha detto il presidente della Noc Moustafa Sanalla, che ha paventato «conseguenze di vasta portata e prevedibili». Sanalla rispondeva così al portavoce delle forze pro-Haftar Ahmad al-Mismari, che parlando all’emittente televisiva al-Hadath aveva parlato di «decisione voluta dal popolo», destinata a «prosciugare le fonti di finanziamento del terrorismo». L’Unsmil, la missione dell’Onu in Libia, ha a sua volta espresso grave preoccupazione per le ricadute di questa azione sul popolo libico, e ha insistito sull’importanza di preservare l’integrità e la neutralità della Noc.

La decisione di Haftar appare come una risposta alle iniziative della Turchia, che dopo la recente avanzata dell’Lna fino ai sobborghi di Tripoli aveva cominciato il dispiegamento di proprie truppe a sostegno del governo guidato da Fayez el-Serraj (il Gna) e allo stesso tempo esplicitato la propria intenzione di mettere in azione trivelle turche alla ricerca di petrolio e gas nelle acque libiche controllate dal Gna. Ciò che ieri hanno attuato le tribù in armi fedeli a Haftar è stato appunto il minacciato blocco della cosiddetta «mezzaluna del petrolio», una serie di terminali per l’export del greggio che sorgono lungo la costa centro-orientale del golfo di Sirte e che il generale di Bengasi controlla fin dal 2016.

I fedeli di Haftar pretendono un blocco immediato non solo dei terminali petroliferi che sono nelle loro mani Brega, Ras Lanuf, Zueitina, Hariga e Sidra ma anche di quelli su cui non esercitano un controllo, come Misurata e Mellitah. Quest’ultimo si trova nelle vicinanze di Tripoli, ed è quello da cui parte tra l’altro il gasdotto sottomarino che sbocca in Sicilia e rifornisce l’Italia di oltre il 10 per cento del suo fabbisogno. Per quanto riguarda il petrolio greggio, nel 2019 la Libia ce ne ha fornito quasi 7 milioni di tonnellate, collocandosi al quarto posto tra i Paesi esportatori nel nostro Paese con una quota del 12,1 per cento sul totale. Quote maggiori sono state assicurate dall’Iraq (19,9), dall’Azerbaigian (17,3) e dalla Russia (14,9), mentre seguono con quote minori Arabia Saudita, Kazakistan e Nigeria. Il blocco dell’export libico, se fosse esteso integralmente, limiterebbe dunque il nostro import di circa un ottavo del totale, costringendoci a cercare altrove in tempi rapidi adeguate compensazioni.

il giornale.it

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