L’avvocato Conte si sfila dal processo Gregoretti. Bagarre in commissione
Per un giorno Giuseppe Conte torna avvocato. Più di se stesso che del popolo. Conte scappa dalle responsabilità politiche sul caso Gregoretti in stile «cattivo maestro»: ammette di essere il mandante morale dei «porti chiusi» ma insiste che vada processato solo l’esecutore, cioè Matteo Salvini.
«Se qualcuno mi contesta il generale indirizzo politico sul tema delle migrazioni, sono pronto a risponderne», ammette il presidente del Consiglio intervistato dal Corriere. «Se però -frena – devo rispondere della specifica decisione riguardante lo sbarco di una nostra nave in un nostro porto, non posso affermare di essere stato coinvolto se questo non è avvenuto». L’antifona è chiara, anche se poco credibile anche dal punto di vista giuridico. E Conte non può del tutto nascondere che la linea politica, così come il decreto, furono condivisi e votati dall’intero consiglio dei ministri.
Basta tornare con la mente ai mesi caldi del governo gialloverde per richiamare la situazione: di certo lo stop alle navi non avveniva in segreto. E infatti il leader della Lega ha buon gioco a replicare a Conte: «Il presidente del Consiglio attacca Salvini dalla piazza di Borgo Val di Taro (Parma) dove continua a fare campagna elettorale- è un po’ distratto: Conte ha detto che non ne sapeva niente quando io bloccavo gli sbarchi. A me la gente che perde l’onore e sacrifica la sua dignità per salvare la poltrona fa un’immensa tristezza. Se pensano di farmi fuori hanno sbagliato: vi aspetto tutti quanti in tribunale».
In pieno battibecco, ieri la maggioranza ha anche incassato uno smacco nella riunione della giunta per le immunità del Senato che dovrà decidere sul destino processuale di Salvini. Pd, Iv e perfino i 5 Stelle che scudarono Salvini nell’identico caso di nave Diciotti, voteranno contro l’immunità. Ma volevano rinviare il voto (che in dicembre era stato fissato all’unanimità al 20 gennaio). Il perché è evidente: i giallorossi vogliono usare l’arma giudiziaria contro il rivale politico, ma temono che la scelta si riveli un boomerang alle elezioni in Emilia Romagna. E ieri in giunta i giallorossi tentano di prendere tempo chiedendo approfondimenti ma si incartano: con Pietro Grasso e Mario Giarrusso assenti per viaggio in America, la richiesta viene respinta e scoppia la bagarre. La maggioranza lascia la seduta contestando il presidente Gasparri per aver votato. «Lo hanno fatto tutti i presidenti, è stato ineccepibile» fanno quadrato i senatori azzurri. Il match riprende oggi.
Ed è la confermato che il voto in Emilia sarà uno spartiacque per le sorti del governo. Salvini attacca: «Se si vince in Emilia Romagna io il giorno dopo vado da Conte, Renzi, Zingaretti e Di Maio e gli dico andate a casa che adesso tocca a noi anche a livello nazionale». Ma è Conte, pur auspicando «un processo politico sempre più definito tra M5s e Pd», a far trapelare i tremori della coalizione, che rinvia i programmi per il futuro, guarda caso, al dopo voto in Emilia Romagna: «Da un primo scambio con le forze politiche -accenna il premier- ho compreso che conviene attendere ancora alcuni giorni per dare il tempo a tutti di elaborare un’ampia riflessione». Ma rinviare le scelte potrebbe non servire. Il tema migranti a sinistra torna scottante: il governo finisce nel mirino (da Emma Bonino alle Sardine) perché non abroga i decreti sicurezza. Se gli emiliani voteranno con la testa a Roma, il governo rischia.
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