Germania verso la recessione I disoccupati sono in aumento

Recessione. A Berlino c’è paura a pronunciare questa parola e ieri l’Agenzia federale per il lavoro, presentando le statistiche per il 2019, ha utilizzato il termine Schwächephase che suona più o meno come «fase di debolezza congiunturale», ma si tratta in realtà di un elegante sinonimo per dire che l’incremento della disoccupazione per la prima volta dal 2013 è un chiaro segnale recessivo.

Il numero dei senza lavoro, infatti, è salito a 2,23 milioni circa, 47mila in più rispetto a novembre e 18mila in più rispetto a dicembre 2018. Il tasso di disoccupazione è cresciuto di 0,1 punti percentuali al 4,9%. E così Detlef Scheele, capo dell’Agenzia, ha sottolineato che «si possono osservare segnali di debolezza dell’economia». Certo, occorre ricordare che a novembre i disoccupati erano scesi a 2,18 milioni, il livello più basso dal 1990, anno della riunificazione. E che, su base destagionalizzata, la perdita di occupati è stata di 8mila unità, ma più del doppio di quanto si attendeva il consensus degli analisti.

Ma che cosa non funziona nel mercato tedesco del lavoro e in tutta la Germania in generale? L’offerta di nuovi posti di lavoro è sostanziosa ma in consistente flessione rispetto al 2018. I contratti equiparabili alla formula italiana del «tempo indeterminato» sono in aumento, ma cresce sempre più l’incidenza della sottoccupazione e delle altre forme più flessibili. Insomma, cominciano a vedersi gli effetti della gelata del settore automotive. La produzione di veicoli l’anno scorso dovrebbe essersi attestata ben al di sotto dei 5 milioni di unità a causa del combinato disposto di guerra dei dazi e crisi del diesel. Dall’altro lato le ristrutturazioni del settore finanziario, a partire da Deutsche Bank, hanno determinato qualche riflesso.

Le preoccupazioni per Frau Merkel, però, non finiscono qui. L’inflazione a dicembre è aumentata più delle attese segnando un +0,6% su base mensile e un +1,5% annuo. Tassi bassi, posti di lavoro che si contraggono e prezzi che aumentano possono determinare una spirale negativa che l’Italia ha già sperimentato negli anni ’70 ma che la Germania di oggi non è pronta ad affrontare. Giovedì scorso l’indice Pmi di dicembre che monitora l’attività manifatturiera in Germania è sceso a dicembre a 43,7 da 44,1 di novembre, restando sotto quota 50 (che separa l’espansione dalla contrazione) per il dodicesimo mese consecutivo. Il mese scorso la Bundesbank aveva tagliato le previsioni di crescita del Pil per quest’anno da +1,1 a +0,6 per cento, evidenziando rischi sistemici molto elevati.

Le ricadute per l’Italia sono duplici. Da un lato, sta perdendo vigore il tradizionale mercato di sbocco della nostra produzione industriale. Dall’altro lato, la Schwächephase mette al riparo Roma da eventuali pressing della Bundesbank su Madame Lagarde. Alzare i tassi ora non ha più senso.

il giornale.it

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