Disastro ambientale a Brescia, 25mila ostaggi della fabbrica dell’orrore
L’emergenza dura da 17 anni. Una tipicità tutta italiana. Dal 2001 al 2019 ogni sei mesi il Comune di Brescia pubblica un’ordinanza che vieta a 25mila residenti il contatto con la terra, con l’erba e con le aree verdi.
In un intero quartiere a sud della città è vietato giocare all’aperto. Negli ultimi 20 anni i bresciani hanno dovuto imparare a conoscere nomi di composti chimici, livelli tossicologici, percentuali di contaminazione. Quando un problema ce l’hai in casa, diventa naturale informarsi e combattere. Così è stato quando è stata portata alla luce la bolla tossica che per oltre 50 anni aveva avvelenato la terra sotto i piedi dei bresciani. Ben presto il nome di un fiume è diventato l’emblema della contaminazione. Oggi se a Brescia dici «Caffaro», nessuno pensa più al corso d’acqua, ma a quella fabbrica della morte. Da ramo della natura al simbolo dei veleni.
Disastro a Brescia, 25mila ostaggi della fabbrica dell’orrore
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Ultimo atto: non si torna indietro
Quando è sorta, nel 1906, la fabbrica Caffaro era considerata in periferia, in una zona agricola appena oltre il cimitero municipale. Cento anni dopo è praticamente il cuore della città, a meno di un chilometro dalle mura antiche che delimitano il centro storico. A partire dagli anni Trenta l’industria ha cominciato a lavorare cloro, mercurio, arsenico, tetracloruro di carbonio e ha cominciato a produrre il Pcb, all’epoca considerato un ottimo lubrificante e isolante termico. Soltanto dopo decenni si è capito che fosse nocivo, e solo quando comparvero i primi casi di intossicazione tra i lavoratori. Ma quando la produzione venne interrotta era ormai il 1984, erano trascorsi cinquant’anni. «Pcb». Nella città della Loggia chiunque abbia almeno 40 anni sa cosa sia e da dove arrivi. E’ inodore, incolore, non provoca mutamenti visibili al terreno, ma è tossico quanto la diossina. E soprattutto non si autodistrugge, resta e si annida. Si stima che negli anni di attività la «Caffaro Chimica» abbia disperso 150 tonnellate di pcb nel sottosuolo, scaricando reflui nel terreno e nelle canaline di scarico che poi finivano nei piccoli canali che irrigano la provincia padana. I veleni invisibili hanno contaminato ettari di campi e chilometri quadrati di terra, mentre intorno allo stabilimento la città continuava a crescere di case e abitanti. Il primo a ipotizzare il disastro ambientale a Brescia è stato l’ambientalista e storico Marino Ruzzenenti, che con un suo libro ha svelato l’indicibile. «Si sono persi 18 anni in cui sostanzialmente non si è fatto nulla – spiega -. Anzi, lo stabilimento è stato completamente abbandonato e ancora oggi vi sono dispersioni di altre sostanze come mercurio e cromo esavalente». Sono trascorsi 35 anni dalla fine della produzione di Pcb, eppure quella sostanza invisibile continua ad avvelenare Brescia.
La storia di Pierino Antonioli
Pierino Antonioli ha 77 anni. Ha sempre vissuto in un’antica cascina a due chilometri in linea d’aria dalla Caffaro. Per 60 anni ha coltivato campi e allevato animali. Viveva della vendita dei suoi prodotti in tutta la provincia. Fino al 2001, quando si scoprì l’inquinamento causato dall’industria. «Da un giorno all’altro ci hanno portato via tutto – spiega -, hanno sequestrato i campi, abbattuto gli animali, portato via persino i cibi nel freezer». Da allora Pierino non ha più potuto lavorare i suoi 7 ettari di coltivazioni e la sua vita è cambiata per sempre. Dopo le analisi lo scenario è apparso subito chiaro: era tutto avvelenato, compreso lui stesso. Ancora oggi ha nel sangue 340 nanogrammi di Pcb per millilitro: «Mia madre ne aveva 700». Il limite è stimato, all’eccesso, in 10 nanogrammi. Eppure il signor Antonioli si era accorto che c’era qualcosa di strano nella terra già 40 anni prima della scoperta, e l’aveva denunciato agli enti competenti: «Era il 1968, mi ero accorto che quando la fabbrica era in funzione e irrigavo i campi, poi il raccolto si seccava. L’acqua era tutta contaminata». Eppure all’epoca non si fece nulla.
La bonifica
La Caffaro è oggi un sito di interesse nazionale, destinatario di quasi 7 milioni di euro per la bonifica, di cui però si parla ormai da quasi due decenni. A che punto siamo arrivati oggi? «Ad un passo dalla bonifica – riferisce l’assessore all’ambiente del Comune di Brescia Miriam Cominelli – E’ stato presentato un progetto operativo che va a riguardare l’area industriale del sito. Sono ora in corso le interlocuzioni con il Ministero dell’ambiente e contiamo di poter partire con le procedure amministrative entro la fine dell’anno». I lavori riguarderanno però soltanto l’area industriale abbandonata dall’azienda ormai fallita e non tutti i terreni limitrofi contaminati. «La bonifica deve riguardare non solo il sito industriale, ma ancor più i cittadini che sono vittime di quell’inquinamento», insiste invece Ruzzenenti. Già, è proprio questo il grande interrogativo che pesa sulle teste di quei 25mila bresciani. Come Pierino, che da un ventennio circa aspetta di conoscere i nomi dei responsabili del disastro e intanto vive insieme alla moglie di una pensione di 700 euro al mese, senza aver mai ricevuto un risarcimento. Anzi, all’alba del 2020 è costretto a pagare l’Imu su quei terreni che non producono niente e che altri gli hanno distrutto, cambiandogli la vita. E’ una delle mille sfumature di uno dei più gravi disastri ambientali della storia italiana.
il giornale.it