Meloni vittima del sessismo di “Repubblica”
C’è il fascismo nero, e c’è il fascismo melenso e rosso, che può esser persino peggio. Eccome.
Eccolo lì: ieri Francesco Merlo, prima firma di una Repubblica all’ultima spiaggia quella che vuole fermare l’onda lunga della protesta di popolo togliendogli la dignità e magari anche il voto, chissà cominciando dagli anziani, poi dai non laureati, e poi a piacere ha firmato un’articolessa che cola bile, dal richiamo in prima pagina all’ultima inquietante riga, contro la politica «più amata dagli italiani».
Che essendo però di destra, nella visione di Merlo e di Repubblica, si può trattare peggio di un uomo: Giorgia Meloni, di Fratelli d’Italia, irrisa come nemmeno fosse sua sorella. Umiliata, strattonata, presa in giro per la sua voce, la sua parlata, la sua provenienza la Garbatella, oddio! la sua vicinanza ai «coatti romani», gli emarginati, la suburra. Non è che certi giornalisti non ci andrebbero a vivere in periferia. È che proprio gli fa schifo.
La sinistra schifiltosa, lontana dalle periferie e che ha perso il centro dei propri riferimenti sociali e umani, può dire quello che vuole. Soprattutto ciò a cui la destra – sempre impresentabile, volgare e truffaldina – non ha diritto. Per molto meno, chi ha provato a tratteggiare malignamente – un nome a caso o anche due – l’ex presidente della Camera Laura Boldrini o la paladina della sinistra di lotta e di antileghismo Asia Argento, è finito alla gogna mediatica e deontologica. Il collega Francesco Merlo bravissimo, coltissimo, spalleggiatissimo ha preso la Meloni e ne ha fatto una caricatura grottesca da gettare in pasto al suo pubblico di elettori col senso dell’umorismo ma non quello della reciprocità. L’ha inzaccherata, al meglio di quanto la sua scrittura è capace, del peggio che un giornalista può tirare fuori da 150 righe al veleno: «la sua cantilena da suburra», «aria da Alice peronista», «reginetta di Coattonia», «burina», «incanaglita»… Le ha detto di tutto, che è anche troppo, e alla fine Giorgia Meloni «un’estremista naturalmente di destra» si è incanaglita per davvero e ha querelato per diffamazione sia Merlo sia il direttore di Repubblica. «Di rado – ha detto – ho letto un articolo così violento, così lesivo della mia dignità».
Ora, Giorgia Meloni esiste da vent’anni sulla scena politica, romana e no. E se Merlo – ministro all’Intellighenzia di una Repubblica ormai abbandonata persino dal popolo di sinistra che, chiamandolo populista, dimostra di disprezzare – si prende l’astio di sbeffeggiare la «piccolina», è perché ne ha paura. Fino a che pesava il 3%, la Meloni per Repubblica non meritava quattro colonne d’odio. Ma ora che vale l’8-9, si può investire anche una intera pagina e la firma dalla scrittura più luminosa e mafioseggiante (senza mafia, s’intende!).
Ed ecco a tutta pagina, la 10, parole e toni echeggianti lo stesso hate speech che Repubblica di solito condanna fin da pagina uno (se è sugli altri giornali o sul web). Ecco il peggior machismo dei migliori amici del #MeToo. Ecco il disprezzo dedicato a chi abita nelle periferie e agli elettori di Fratelli d’Italia, antropologicamente non solo diversi ma peggiori. Ecco lo svilimento dell’«altro» (l’«altro» è sempre da accogliere se di una nazione diversa, ma da cacciare se di un partito politico differente).
Del resto da Repubblica non si può pretendere che somigli, giornalisticamente, alle cose buone che predica: il rispetto del diverso, della donna, della volontà popolare (per Merlo e i suoi colleghi di terrazza è incomprensibile come si possa votare la Meloni). E alla fine quello che resta è un pezzo brillantissimo e osceno da caserma, macchiettistico, livoroso e un po’ coatto. Proprio come gli italiani che vivono il disagio delle suburre e, chissà come fanno, votano la Meloni.
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