Così il Pd ha tradito le toghe rosse
Ci sono voluti dieci giorni di veleni, di rivelazioni sconcertanti sul mercato delle toghe, di intercettazioni da brividi lato oscuro del Csm.
Ma alla fine ieri deflagra uno dei grandi temi interni allo scandalo che agita la magistratura italiana: la faida interna al Partito democratico sul fronte della giustizia, la rottura dell’asse che per decenni ha consentito all’ex Pci di piazzare uomini a lui vicini in un congruo numero di posti chiave della giustizia italiana. Non si capisce quanto sta accadendo se non si ragiona sull’implosione del rapporto tra Pd e Magistratura democratica.
A rompere il silenzio provvede il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che ieri chiede ufficialmente a Luca Lotti, fedelissimo di Matteo Renzi, di rendere conto delle sue trame con Luca Palamara e altri magistrati per disegnare gli organigrammi degli uffici giudiziari. Lotti viene convocato dal segretario per «spiegazioni e chiarimenti». L’incontro è talmente burrascoso che al termine Zingaretti chiede che l’inchiesta sul marcio vada fino in fondo; e in serata fa sapere addirittura di non avere manifestato a Lotti alcuna solidarietà.
La versione ufficiale è che il braccio destro di Renzi «ha ribadito l’assoluta certezza di avere avuto comportamenti corretti». Ma è chiaro che non è questo (o solo questo) il problema. La domanda è: a che titolo, su mandato di chi, Lotti si muoveva nel sottobosco del Csm?
La risposta sta in quanto avviene nei mesi cruciali del settembre 2014, quando si insedia il nuovo Consiglio superiore della magistratura. Siamo nell’epoca del massimo splendore di Matteo Renzi, divenuto dal dicembre segretario del Pd e arrivato in febbraio a Palazzo Chigi, sloggiando Enrico Letta. Parte la fase dell’occupazione militare del potere.
Quando viene eletto il nuovo Csm, tutti si aspettano che alla vicepresidenza approdi Massimo Brutti, docente universitario, già membro del Csm e responsabile giustizia dei Ds. Invece, a sorpresa, il Pd designa Giovanni Legnini. Un nome sconosciuto anche agli addetti ai lavori. «Dovemmo andare su Google per sapere chi era», racconta un consigliere dell’epoca.
Il senso della mossa si capisce solo ora. Viene spiazzata l’ala sinistra del Csm, il gruppone di Area e di Magistratura democratica, legato da un rapporto storico all’apparato del Pd al punto che alcuni esponenti di Md si erano già incontrati con Brutti considerando la sua nomina cosa fatta. Ma Brutti sarebbe stato troppo ingombrante per la gestione renziana delle nomine. Al Csm va Legnini, ma da quel momento la «sacrestia», quella dove si tirano le fila delle poltrone, si sposta fuori dal Csm. E taglia fuori le toghe rosse di Md.
Bastano poche settimane per capire il senso della mossa: l’interlocutore scelto da Renzi per prendere il potere è Unicost, il correntone di centro, da sempre in maggioranza nel Csm. Anzi: non Unicost ma la sua ala sinistra, quella guidata da Luca Palamara. Md si trova brutalmente emarginata. Le decisioni sulle nomine arrivano in Csm portate dai due consiglieri di Unicost più vicini a Palamara. Le prime poltrone ad essere occupate sono tutte in Toscana, nella regione del premier. A lungo, in Csm, si sono chiesti quale fosse il canale di comunicazione sotterraneo tra Unicost e il Pd. Adesso lo sappiamo. Come ogni vero regista occulto, Luca Lotti non si fa vedere in Csm. A bazzicare Palazzo dei Marescialli alcuni politici, di ogni schieramento, sono avvezzi. Lotti non ci ha mai messo piede. Non ce n’era bisogno.
Lo schema prosegue uguale con il nuovo Csm. Al posto di Legnini va David Ermini, anche lui renziano ma anche lui estraneo al sottobosco dell’ex premier. Le decisioni continuano ad essere prese altrove, nell’asse Lotti-Palamara. Renzi non è più al potere, ma la macchina dell’occupazione delle poltrone che contano continua a funzionare a pieno regime: ci sono nuovi interessi da soddisfare, altre posizioni da tenere al riparo dalle indagini, e sono quei poteri occulti di cui parla ora, in una dichiarazione solo apparentemente critica, il consigliere di Area Giuseppe Cascini. Il vicepresidente Ermini, come Legnini prima di lui, è l’ostacolo da aggirare a tutti i costi per portare a casa i risultati voluti dalla cricca. Così nel famoso incontro a notte fonda con Palamara, Lotti sfoga tutta la sua arrabbiatura con Ermini, colpevole di non appoggiare la nomina cruciale: quella di Marcello Viola a procuratore di Roma. «Ermini è stato messo lì per fare quello che gli si dice di fare», dice Lotti. Ma forse non lo avevano avvisato.
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