Francesco non dice la parola comunismo
Non nominare il nome di Dio invano, e neanche quello del tuo nemico. Papa Francesco sceglie di non pronunciare mai la parola «comunismo» durante l’omelia della Divisa Liturgia.
Eppure l’ultima tappa del suo viaggio apostolico in Romania è la beatificazione di sette vescovi greco-cattolici, martiri del regime sovietico. Iuliu Hossu, Vasile Aftenie, Ioan Balan, Valeriu Traian Frentiu, Ioan Suciu, Tit Liviu Chinezu e Alexandru Rusu, morti per mano della «feroce oppressione del regime».
Qui il comunismo è ferita aperta, pulsante. Le macerie lasciate da 80 anni di regime sono state la molla dell’esodo verso l’Europa «occidentale», l’innesco della bomba migratoria che dopo 20 anni sta facendo saltare la Ue. «Resistenze e ostilità sorgono nel cuore umano quando al centro, invece delle persone, si mettono interessi particolari, etichette, teorie, astrazioni e ideologie, che, là dove passano, non fanno altro che accecare tutto e tutti». Niente da fare, nessun cenno ai massacri sovietici e alle morti per mano del comunismo, perché più che agli spettri del passato il messaggio del Pontefice punta più a combattere le «ideologie del presente», quelle che «in maniera sottile, cercano di imporsi» e che disprezzano «il valore della persona, della vita, del matrimonio e della famiglia» e che in cambio propongono «soluzioni alienanti, ugualmente atee, che lasciano privi di radici da cui crescere giovani e bambini».
Ma quello che all’apparenza sembra un messaggio diretto contro i teorici di aborto, eutanasia e unioni gay, nel corso della giornata diventa invece l’ennesima staffilata ai nemici dell’immigrazione incontrollata. Con parole che forse non a caso fanno rima con i proclami M5s dal palco della Festa del 2 Giugno. Non è una sorpresa, anzi è il cliché del mandato che Bergoglio si è costruito in questi anni.
Il Santo Padre si fa carico degli errori della Chiesa, mescolando però la richiesta di perdono al solito anatema contro chi «induce le persone ad approfittare delle altre e a trattarle come meri oggetti, seminando paura e divisione» perché «è nell’indifferenza che si alimentano pregiudizi e si fomentano rancori». Perché nel mondo «ci sono gli Abele e i Caino, c’è la mano tesa e la mano che percuote».
È il solito refrain. Non si parla quasi mai di fede ma di cosa ci rende cristiani. Non si parla della rabbia delle periferie d’Europa minacciate da chi arriva senza remore e senza regole perché non ha più niente da perdere.
Secondo il Pontefice «non siamo cristiani, e non siamo nemmeno umani, se non sappiamo vedere la persona prima delle sue azioni, prima dei nostri giudizi e pregiudizi».
È il preambolo all’ennesimo mea culpa, stavolta rivolto alla comunità dei rom: «Quante volte giudichiamo in modo avventato, con parole che feriscono, con atteggiamenti che seminano odio e creano distanze», si chiede infatti Bergoglio davanti alla comunità nomade di Blaj incontrata nel quartiere di Barbu Lautaru.
L’etnia è stata nella storia vittima delle persecuzioni: «Nel cuore porto il peso delle segregazioni e dei maltrattamenti subiti dalle vostre comunità. La storia ci dice che anche i cristiani, anche i cattolici non sono estranei a tanto male». Anche il regime comunista, ma per la dottrina Bergoglio ricordarlo è peccato.
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