Così la mafia nigeriana controlla il racket dell’elemosina in strada
«Se non pago, non posso cercarmi un lavoro. Voglio scappare in Germania o in Francia, lì lui non mi troverà più e tutto questo sarà finito».
Lui è «la persona a cui devo dare i soldi». È un boss? «Sì, ho un boss, lui mi controlla». Dietro la quotidianità di un cappellino da baseball stretto in una mano tesa fuori da un supermercato di viale Umbria a Milano, c’è il dramma che non ti aspetti. O almeno non da una denuncia così spontanea, celata da una richiesta di aiuto: uno sfruttamento che parte dall’Africa e arriva in Italia sui barconi. Isaiah, il nome è di fantasia per tutelarne l’anonimato, 23 anni, nigeriano, racconta a Quarta Repubblica quello che da tempo è oggetto di un’indagine della sezione anti tratta della Procura di Torino guidata dal commissario Fabrizio Lotito: l’ipotesi che ci dietro l’accattonaggio che nelle grandi città si nutre di centinaia di migranti, quasi tutti provenienti dalla Nigeria, ci sia un sistema gestito dalla mafia nigeriana, al pari di prostituzione e spaccio. E che questi ragazzi non siano che schiavi costretti a ripagare un debito: il loro viaggio dalla Libia.
Paura di ritorsioni e omertà ostacolano il lavoro degli investigatori su un fenomeno «esploso l’anno scorso», spiega Lotito: «Al pari delle ragazze nigeriane che devono ripagare il debito alle loro madame, non si può escludere che dietro a questi ragazzi che chiedono l’elemosina con il cappellino ci sia un’organizzazione criminale. Ma le indagini sono in corso e ci vuole cautela». Sono duecento quelli mappati solo a Torino, città che per prima ha certificato sul piano giudiziario la presenza dei clan neri. Il numero aumenta in grandi centri come Milano, Firenze, Bologna. A sentire i migranti – la maggior parte titolari di permesso umanitario -, turni, postazioni e orari sembrano assegnati con un sistema collaudato. Si inizia alle sette e trenta del mattino, si finisce alle sette e trenta di sera. Il cambio tra uno e l’altro arriva alle 13. Vanno e vengono in autonomia, tutti da fuori Milano: è l’alba quando li riconosciamo alla stazione centrale – cappellino da baseball e zainetto in spalla – mentre scendono da treni provenienti da Novara, Lodi, Bergamo, Como. Da qui si sparpagliano per la città, diretti alle postazioni che ruotano durante i giorni della settimana. «Io sto qui solo il lunedì, il mercoledì e il venerdì, gli altri giorni viene il mio amico», «io solo il venerdì e il sabato». L’ipotesi di chi indaga è che del guadagno della giornata il 50% sia destinato al racket.
Non tutti sarebbero in strada per ripagare un debito, c’è anche chi ci si ritrova perché fuoriuscito dai centri perché ha terminato il progetto di accoglienza. Ma anche qui c’è l’ombra della criminalità: «Abbiamo fatto un’indagine durante il 2018 – spiega Valerio Pedroni, della Fondazione Somaschi – da marzo a novembre abbiamo avvicinato oltre 300 persone ed effettuato 40 colloqui: ne è emerso che questi ragazzi devono ripagare un debito, a volte gonfiato fino a 35mila euro. Non solo, è emerso anche il tema della piazzola: cioè si è costretti a pagare per stare in un posto piuttosto che in un altro». «È il mio primo giorno fuori da questo supermercato – continua Isaiah – In Italia sono arrivato due mesi fa, dopo essere stato un anno prigioniero in Libia. Ho cercato in tutti i modi di scappare da là e di attraversare il mare. Ora che sono qui devo ripagare chi mi ha portato». Il suo creditore lo chiama «tutti i giorni». Non andrà dalla polizia, anche perché è senza documenti: «Non voglio problemi». Isaiah ora cerca solo i soldi per un biglietto. Direzione Francia o Germania: «Lì farò domanda per l’asilo e tutto questo finirà».
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