Così la mafia nigeriana controlla almeno nove città italiane
Di mafia nigeriana si parla ancora poco – almeno in termini mediatici -, ma tra gli elementi citati spesso c’è la correlazione tra i rituali vodoo e l’organizzazione criminale in questione.
Il Viminale sembra voler agire con decisione: il ministro Matteo Salvini ha predisposto l’invio di 200 soldati presso Castelvorturno, quello che sembra essere il vero centro di comando, magari di diffusione, del fenomeno in oggetto.
Ma a leggere alcune delle analisi che vengono pubblicate, come quella di Marco Gregoretti per Voi, che è stata riportata da Dagospia, non sembra possibile circoscrivere questa tipologia di mafia a un unico territorio. Se Castelvorturno piange, insomma, altre città non ridono. Tanto che quelle “controllate” in Italia – nel senso di essere assoggettate – sarebbero ben nove. Il legame tra una certa ritualità tribale e i comportamenti messi in atto da vari gruppi criminali, che sono almeno tre, è uno dei capisaldi teorici del dottor Alessandro Meluzzi, che si è detto più volte certo di questo nesso: “Quello che hanno fatto alla povera Pamela Mastropietro – ha dichiarato lo psichiatra alla rivista citata – , ma anche alla piccola Desirée Mariottini non trova parole per essere descritto. Sono state vittime di rituali criminali con i quali rischiamo di dover convivere quotidianamente”. Le modalità d’azione, insomma, hanno delle drammatiche costanti. Lo dovremmo dedurre da recenti fatti di cronaca. Meluzzi, però, non è il solo a rintracciare un collegamento tra i tribalismi e i delitti: “Anche la criminologa Valentina Mercurio – si legge ancora – ha fatto diversi «studi sul campo» sui rituali e i sistemi punitivi adottati da queste bande criminali in Nigeria e in occidente”.
Volendo essere precisi, varrebbe la pena spiegare cos’è lo Juju, che alcuni ascrivono al Vodoo e altri, orientalizzandone l’espressione, usano citare in funzione di una sorta di spiritualismo africano. Fatto sta che Voi ha deciso di non pubblicare, considerato l'”incubo permanente” che rappresenta, un reportage fotografico al riguardo. I filoni da seguire, sempre secondo quanto si è dedotto in questi mesi, sono almeno tre: prostituzione, droga e traffico di esseri umani. Sul terzo punto, com’è noto, c’è bagarre: la mafia nigeriana – dicono – favorisce l’immigrazione clandestina, ma come distinguere gli scafisti mafiosi da quelli che non fanno parte dell’organizzazione di cui stiamo parlando? Un certo tratto buonistico, poi, non sembrerebbe coadiuvare il tenativo di porre un freno alla brama di coloro che trasportano donne nel Belpaese col solo scopo di estendere il mercato della prostituzione, quindi di guadagnare soldi che in seguito verrebbero investiti sì, ma dove? Nel pregevole pezzo di Gregoretti si legge che: “Le indagini dello Sco, della Dia, dei Carabinieri e della Guardia di finanza, coadiuvati in alcune città, come a Torino, anche dalla Polizia municipale, hanno portato alla scoperta di guadagni immensi che vengono già investiti in attività “lecite” come gli alimentari etnici e i phone center. Un fiume di danaro che, con il sistema Hawala, un sorta di fiduciario sulla parola, uno in Italia e uno in Nigeria, viaggia all’interno di valigette nere che contengono 100 mila euro. Il 30 per cento se lo spartiscono i fiduciari”.
Per comprendere la mafia nigeriana, insomma, bisogna tener conto di una serie di fattori intrecciati: quello rituale, quello criminale e quello economico – finanziario. Tutti e tre i fattori, però, viaggerebbero su una sola direttrice e finirebbero col produrre un effetto comune: una sorta di dominio territoriale che nove città d’Italia dovrebbero, loro malgrado, conoscere bene.