L’inferno dei cristiani del Pakistan: morte, violenze e conversioni forzate

L’incubo di Asia Bibi non è finito. Dalla cella in cui è stata reclusa per nove anni con l’accusa di blasfemia è stata costretta a rifugiarsi in un luogo segreto per sfuggire alle minacce degli estremisti islamici, in attesa di riavere indietro il passaporto e poter lasciare il Paese per ricominciare a vivere.

Non importa infatti che Khadim Hussain Rizvi, il leader del partito fondamentalista Tehreek-e-Labaik Pakistan (TLP), lo stesso che ha guidato le violente proteste contro l’assoluzione della donna cristiana, sia finito in manette con l’accusa di terrorismo e sedizione. In un Paese dove l’estremismo si fa sempre più strada anche all’interno delle istituzioni, l’odio contro le minoranze religiose, in particolare quella cristiana, continua a far paura. “Nelle scuole, ad esempio, i cristiani non possono bere dallo stesso rubinetto o usare gli stessi bagni dei loro colleghi musulmani”, ha spiegato durante la presentazione del Rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre sulla Libertà Religiosa nel mondo Tabassum Yousaf, avvocatessa pakistana che ha difeso Binish Paul, la ragazza diciottenne scaraventata dal secondo piano del suo palazzo per aver rifiutato di convertirsi all’Islam.

In una parola i cristiani vengono considerati bhanghi, cioè “impuri”. Non possono accedere alle alte cariche dello Stato e del governo e fanno parte delle classi sociali più povere e vulnerabili. Una condizione che li espone a violenze e vessazioni di ogni tipo: dalle conversioni forzate, che spesso vengono pretese in cambio di prestiti di denaro, fino ai rapimenti, agli stupri e alle uccisioni. Come quella di Shama e Shazad, una coppia di sposi cristiani accusati di blasfemia e bruciati vivi nella fabbrica di mattoni dove lavoravano, davanti agli occhi del loro figlio minore, Suleman.

È la legge sulla blasfemia lo spettro più temibile con cui i cristiani pakistani sono costretti a fare i conti. Una norma inserita nel codice penale pakistano nel 1986 per volere dell’allora presidente Muhammad Zia ul Haq, che nel tempo si è stratificata nella mentalità delle persone al pari di una prescrizione coranica, come conferma Cecil Shane Chaudhry, il direttore della commissione Giustizia e pace della Conferenza episcopale pakistana, intervistato dal quotidiano La Verità. Tanto che chi si è battuto per cancellare questa legge, che prevede la pena di morte per chi insulta il profeta Maometto, ha pagato con la propria vita. È il caso del ministro delle minoranze del Pakistan, Shabaz Bhatti e del governatore del Punjab, Salman Taseer, entrambi uccisi da gruppi di estremisti islamici. Le persone colpite dalla legge sulla blasfemia sono in tutto 1535. Nel 2015 gli accusati sono stati 52, mentre i casi sono scesi a 17 nel 2016. Ad essere citati in giudizio sono anche gli stessi musulmani. Spesso, infatti, l’accusa di blasfemia è usata per risolvere “liti o rancori personali”.

Sono tantissimi anche i casi di stupri ai danni di ragazze cristiane. Farah, una quattordicenne di Burewala, nel Punjab, è stata rapita e violentata da quattro uomini musulmani. Stessa sorte è toccata anche a Nazia, una ragazzina di 13 anni di Sargodha, nella stessa provincia, sequestrata da un uomo musulmano e stuprata dopo essere stata stordita con un colpo alla testa. Aveva tredici anni anche un’altra ragazza, della quale l’avvocatessa per motivi di sicurezza non rivela il nome, violentata ripetutamente in una moschea da un uomo musulmano che l’ha ricattata per anni, al punto tale da spingere il fratello a firmare un documento che lo scagionasse da qualsiasi colpa. Episodi come questi sono tantissimi, ma raramente vengono denunciati. Gli aggressori, infatti, si trovano quasi sempre in una condizione di superiorità culturale, economica e sociale rispetto alle vittime. E chi ha il coraggio di portare la sua storia davanti ai giudici deve fare i conti con nuove aggressioni e intimidazioni. Due imam, ad esempio, hanno minacciato di denunciare per blasfemia la famiglia di Vikram, uno studente di ingegneria di Karachi, pestato fino a perdere un occhio da tre colleghi musulmani solo perché cristiano, se si fosse rivolta alla polizia per segnalare l’accaduto.

E spesso chi è accusato di blasfemia si ritrova condannato senza prove proprio per le pressioni esercitate sui giudici dalle autorità religiose locali o dai gruppi islamici più radicali. Una condanna, invece, neppure c’è stata per il pastore cristiano Ghazala Khan, in carcere dal 2012 a Rawalpindi per aver inviato dei presunti messaggi “blasfemi”, è stato ucciso in prigione nel 2014 da una guardia carceraria. La soluzione a tutto questo, secondo Yousaf, sarebbe investire nell’educazione delle famiglie cristiane pachistane, per renderle più consapevoli dei propri diritti. Ma soprattutto di tenere i riflettori della comunità internazionale accesi su queste violenze, per spingere il governo del Pakistan a fare di più per “proteggere tutte le minoranze religiose”.

occhidellaguerra

 

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