I genitori di Pamela Mastropietro a Oseghale: “Nessun perdono meriti condanna esemplare”

Alessandra e Stefano Mastropietro negano il perdono al pusher nigeriano: “Non meriti nulla, se non una condanna che ti releghi in carcere per il resto dei tuoi anni”

“Come possiamo accettare le scuse che ci hai rivolto in udienza, lo scorso 26 novembre, quando un giudice, con coraggio, ti ha rinviato a giudizio per aver violentato, ucciso, depezzato chirurgicamente, scuoiato, scarnificato, disarticolato, esanguato, lavato con la varechina, messo in due trolley ed abbandonato sul ciglio di una strada nostra figlia Pamela?”.

Sono queste le parole con cui Alessandra Verni e Stefano Mastropietro chiariscono che nel loro cuore non c’è spazio per il perdono chiesto da Innocent Oseghale, il pusher nigeriano accusato della morte della figlia.

Eppure Oseghale continua a professarsi innocente. La giovane romana, a detta dell’imputato, sarebbe morta di overdose e non per mano sua. Tuttavia, il nigeriano, ha ammesso di essersi sbarazzato del suo cadavere. Una versione a cui i genitori di Pamela non credono. E così, qualche giorno dopo il tentativo di riconciliazione del nigeriano, hanno deciso di rispondergli con una lunga lettera affidata alle colonne de Il Primato Nazionale. Si rivolgono direttamente a lui, ripercorrono il dolore, l’angoscia e la disperazione che si sono impossessati delle loro vite. Lo choc che hanno provato alla vista delle fotografie del corpo di Pamela: “Ci siamo sentiti male, abbiamo vomitato, abbiamo pianto disperatamente, non siamo andati a lavoro per settimane”. E il dubbio che li logora ormai da quasi un anno e che “emergerebbe in alcuni documenti processuali”: ossia che l’indagato abbia cominciato a sezionarla quando era ancora viva. Ma anche la sofferenza per non averle neppure potuto dare l’ultimo abbraccio: “Sai che ci è stato vietato di poter dare un ultimo abbraccio al suo corpo, il giorno che l’abbiamo dovuta chiudere nella bara, a Macerata?”. Questo perché “sennò il corpo che avevano faticosamente cercato di ricomporre si sarebbe sfaldato alla minima pressione”. E allora, ripetono, “come possiamo perdonarti?”.

E di fronte alla richiesta che gli venga concessa una seconda chance dicono: “Perché non racconti che sei qui in Italia da anni, venuto come richiedente protezione internazionale, dicendo di essere un perseguitato al tuo paese, salvo poi esserti dedicato, nella terra che ti aveva ospitato a prescindere, a spacciare droga?”. Quindi, continuano a domandare, “come fai a chiedere una seconda possibilità? Per fare cosa? Per tornare a spacciare? O a spezzare altre vite come hai fatto con quella di nostra figlia”. “Perché – proseguono i due – non racconti di tutto il resto che, di marcio, emerge dalle carte processuali? E che denuncia, inequivocabilmente, quello che abbiamo sempre ipotizzato? Ossia che dietro di te ci possa essere la mafia nigeriana? E che essa possa coinvolgere anche altri soggetti, inclusi a vario titolo in questa vicenda?”.

Un atto di accusa vibrante, dal quale non sono al riparo neppure Desmond Lucky e Lucky Awelima, gli altri due spacciatori inizialmente accusati di concorso in omicidio e poi soltanto di spaccio di eroina. Persone che, per Alessandra e Stefano, ripagano il Paese che li ha accolti vendono “morte ai nostri ragazzi”. È per questo che nel cuore dei genitori di Pamela non può germogliare nessun perdono: “Non meriti nulla, se non una condanna esemplare, che ti releghi in carcere per il resto dei tuoi anni, fino a quando qualcuno, più in alto di noi, non sia chiamato a giudicarti. Non sappiamo se lui ti perdonerà, ma di certo è l’unico in grado di farlo”.

 

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