di Francesco Specchia per
Libero
Rieccolo. C’è qualcosa di allegramente freudiano se non di patologico – una sorta di «Alzheimer politico» – nell’intervista con cui, al Corriere della sera, Romano Prodi descrive ora i rischi democratici di questo «governo illiberale» dimenticando i disastri provocati dal proprio esecutivo.
Prodi, dipinto come un abate francescano che osserva saggiamente il mondo dalla sua celletta, non solo stronca la «manovra di popolo», il 2,4% di deficit, la volgarità di Orban e i consensi di Salvini e Di Maio, i «numeri fuori controllo». Prodi afferma, deciso, che il mandato popolare del governo gialloverde sia, in realtà una simpatica boutade: «Ci troviamo infatti nel caso in cui chi ha avuto il mandato popolare pensa di avere diritto a fare o a dire qualunque cosa. Come se l’elezione portasse in dote la proprietà del Paese. È una deviazione non solo italiana. Penso alla Polonia e all’Ungheria, così vicina al cuore di Salvini…». Non è carino. Ma, in una democratica dialettica degli opposti, ci può stare, per carità. Finchè, nella foga del j’accuse, il professore azzarda anche l’evocazione di «un raggruppamento che veda insieme, non nello stesso partito, ma alleati: socialisti, liberali, Verdi e macronisti.
Uno schieramento politico accomunato dalla stessa idea di Europa» che vada da Tsipras a Macron in funzione anti-sovranista, roba tipo «la grande Chiesa da Che Guevara e Madre Teresa» tanto per citare un classico. Ed è qui che un lettore attento si scuote all’improvviso dal torpore e pensa: però, la faccia come il coccige… Perché, in sostanza, Prodi richiama il leggendario progetto dell’Unione del 2005. La quale Unione, una formazione che si estendeva da Rutelli a Rifondazione Comunista, per l’appunto, non fu comunanza di virtù bensì spettrale accozzaglia di ideologie e interessi lobbystici che vagò senza meta nei labirinti del centrosinistra italiano al punto che lo stesso Fausto Bertinotti, nel 2008, accucciato, non le appiccò il fuoco avvolto nella sua sciarpa di cachemere.
Sicchè, a metà fra lo Smemorato di Collegno e il livido protagonista della versione di Barney che non ricordava più dove aveva parcheggiato la macchina, Prodi oggi invoca «una politica economica da affiancare all’euro», dimentico del fatto d’esser stato egli stesso il traghettatore della lira nell’euro ma senza corsetto di salvataggio; e di non essersi affatto battuto per cambiare quei criteri scellerati del trattato di Maastricht nei quali l’Italia non rientrava finendo quasi impiccata a quegli assurdi parametri economici; e di aver firmato, come premier, il famigerato «pacchetto Treu» che tanti lutti addusse ai precari italiani. Per non dire dei suoi antefatti in tema di politica industriale. Soltanto l’anno scorso, nella sua Bologna, il professore venne pubblicamente schiaffeggiato da una mite ed esausta studentessa delle «generazione Erasmus» che gli ricordò come, da presidente Iri, il nostro placido boiardo avesse svenduto «il patrimonio economico italiano a società private» (l’Iri ridotto a un’immensa «spugna di finanza pubblica che negli anni 90 faceva concorrenza sleale sui mercati» scriveva l’economista Riccardo Gallo). La studentessa, allora, al prof richiese pubbliche scuse. Che naturalmente mai arrivarono.
Il problema è che la geniale alchimia di Prodi è solo materiale letterario. Non è un caso che i 101 «traditori» che gli tolsero dalle terga la poltrona del Quirinale prima ancora che Prodi potesse sedersi fossero l’ossatura di quella stessa Unione di cui oggi si torna a decantare. È cambiato il mondo, l’Europa amata dal prof è un magma di incompetenze e di fallimenti da cui ribolle un populismo inarrestabile, i nostalgici si rassegnino (e, se hanno tempo, facciano ammenda…).