Come crescere bambini felici? Prendiamo esempio dai danesi
Fra i risultati inaspettati del «metodo danese» ci sono: rendimenti scolastici migliori, benessere scolastico e familiare elevato, periodi adolescenziali poco traumatici, riduzione dell’aggressività fra compagni, un tasso bassissimo di gravidanze fra le ragazze e, come noto da anni, i primi posti nelle classifiche sulla felicità.
Certo, magari tutte queste categorizzazioni sono costruite in modo che i danesi spicchino, ma può anche darsi che qualcosa da imparare ci sia. E bisogna notare, fin dall’inizio, l’uso dei verbi: imparare (at lære) è interscambiabile con insegnare, in danese. Perché, come nell’approccio orientale (che pure sembra lontanissimo dalle coste del Mare del Nord), «l’insegnante e l’allievo imparano insieme». E lo fanno bene, a quanto pare.
Il «metodo danese» ha preso piede, nel senso che ormai, fra i modelli educativi, ha fatto proseliti in tutto il mondo, college americani inclusi. E dire che il «modello americano» è quanto di più lontano, apparentemente, da quello di Copenaghen: come spiega bene Jessica Joelle Alexander, americana che ha sposato un danese, parla quattro lingue, vive fra l’Italia e la Danimarca e, dopo il bestseller Il metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni (Newton Compton, tradotto in 25 Paesi), ora ha scritto un seguito, Il nuovo metodo danese per educare i bambini alla felicità a scuola e in famiglia (Newton Compton, pagg. 282, euro 10), in cui il focus è, soprattutto, sulla scuola. Infatti, sulla scorta di molti «metodi» più o meno recenti, anche Alexander si avvale di un acronimo a tema, in questo caso Teach: insegnare (in inglese), dove la T sta per Trust (fiducia), la E per Empathy (empatia), la A per Authenticity (sincerità), la C per Courage (coraggio) e infine la H per Hygge, la mitologica arte dei danesi di stare bene insieme, creando una «atmosfera intima, serena e accogliente». Ovviamente la Hygge si insegna a scuola, in una apposita Ora di classe (settimanale), così come ci sono lezioni di contatto fisico (per esempio massaggiare la schiena dei compagni: sembra incredibile, ma riduce drasticamente i livelli di aggressività e rilassa i bambini…) e di «unione», il fællesskab, che rientra a pieno titolo nei programmi scolastici, tanto che è compito dell’insegnante pianificarne e controllarne i livelli nelle classi. Così come maestro e alunno discutono insieme obiettivi e strategie per raggiungerli: e negli obiettivi, ovviamente, non rientrano tanto i voti quanto la capacità di empatia, di collaborare con gli altri, di risolvere problemi, di mettere in atto azioni, gesti e parole per appianare conflitti, di essere responsabili, di non essere in ansia per la perfezione quanto, piuttosto, di prendersi la libertà di sbagliare…
È qui che l’abisso con il modello americano, fatto di test, valutazioni e stress da prestazione, diventa quasi insormontabile: ma, in un mondo di innovazione e incertezza, è poi così utile dare solo le risposte «giuste» – si chiede l’autrice – o non servirebbe, piuttosto, essere capaci di lavorare in gruppo, sviluppare le idee e mostrarsi all’altezza di fronte agli imprevisti?
Sembra facile rispondere di sì ma, nella pratica, molti genitori sono più in ansia per il risultato dell’esame o perché il figlio non si sbucci il ginocchio, che per il fatto che abbia un rapporto buono con i compagni, o il coraggio di non escludere un bambino con scarso «capitale di popolarità» (il quale, nella visione danese delle relazioni gerarchiche di gruppo, è destinato spesso a diventare un bullo). È normale, perché si cresce in un certo modo e si crede a quel modello che abbiamo ormai dentro di noi; eppure, dice Alexander, qualche passo, anche piccolo, si può fare. Parlare di temi tabù con i bambini, a qualunque età; lasciare spazio al gioco libero (e che sia veramente libero, senza adulti a dare indicazioni continue); occuparsi di empatia e benessere nelle aule, anche perché portano a un coinvolgimento e a un rendimento migliore: per chi pensa a risultati e motivazione, non c’è niente di meglio che avere ragazzi felici e sereni. Lo dicono gli studi più recenti e i danesi lo mettono in pratica già da anni. Intuitivamente ha senso. Poi ci sono cose, come dice la stessa Alexander, «troppo danesi». Ma non bisogna esagerare…
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