Lo sconforto nel Carroccio per i dilettanti pentastellati

Confessioni segrete di un leghista di peso alle prese con l’insostenibile leggerezza dell’essere grillino. Martedì mattina, intorno alle 11, Massimo Garavaglia, uomo forte del Carroccio al ministero dell’Economia, spiega in confidenza in uno dei corridoi di Montecitorio il complesso rapporto con gli alleati di governo a 5stelle.

«Tolto il reddito di cittadinanza – si sfoga – non si riesce a capire i grillini cosa vogliano. C’è il caos. Come si fa a non capire che gli americani vogliono assolutamente il Tap, per cui se vuoi il loro appoggio in questa difficile situazione economica, devi assolutamente darglielo? Non ci sono alternative: se Conte non avesse dato il via libera lo spread non veleggerebbe ancora sui trecento punti. Sarebbe ancora più su. Non vogliono capire che la politica è complessa perché è semplice…».

Immaginate un personaggio animato dal pragmatismo leghista, come Garavaglia, che guarda alla politica come mediazione tra interessi diversi, e che, ora, deve confrontarsi con il «caos» grillino: è condannato ad incavolarsi un giorno sì e l’altro pure. Anche perché i meccanismi decisionali grillini mettono insieme mondi diversi, quasi incompatibili, secondo complicate liturgie all’ombra di una sempre più evidente ipocrisia. Conte non può dire la cosa più ovvia: il Tap va fatto perché abbiamo bisogno degli americani. No, nel pianeta 5stelle la Realpolitik è bandita. Il premier per far ingoiare la scelta al popolo grillino è costretto a dire «è un’opera che va fatta perché altrimenti paghiamo una penale miliardaria». Poi si scopre che semmai dovesse nascere un contenzioso internazionale sul Tap, basta prestare orecchio alle voci del Palazzo, la questione sarebbe risolta davanti alla Swiss Chamber e trattata alla luce di un nuovo regolamento steso da una Commissione presieduta dal professor Guido Alpa, maestro e mentore del premier Conte.

Insomma, il Movimento va governato secondo regole e pratiche tortuose, che non sono certo quelle del senso comune. Si tratti del Tap, della Tav, del decreto Sicurezza o del provvedimento anticorruzione, la musica non cambia. Dentro i grillini, o per una parte di essi, il compromesso, che è alla base della politica quando si entra nella stanza dei bottoni, è guardato come un «tradimento». E lo scontro fatalmente è sempre virulento, diventa ideologico tra l’anima che si cimenta con il governo, e quella identitaria, che si propone come custode delle origini. E si sa, se si comincia a parlare di «tradimento» in partiti che si ritengono rivoluzionari, o pseudo tali, finisce sempre male: certo non usi la piccozza con cui Stalin fece fuori Trotsky, ma sicuramente utilizzi lo strumento tipico con cui nel movimento comunista si riportavano all’ordine le minoranze, cioè le espulsioni.

Nel dietro le quinte della trasmissione Aria che tira, il presidente dei senatori grillini, Stefano Patuanelli, ideologo dell’anima governativa del movimento, il teorico della «testuggine» evocata da Giggino Di Maio, disserta sui mal di pancia dei 5stelle. «Ci sono due anime – osserva il Berija, si fa per dire, di Di Maio -: quella dei parlamentari della scorsa legislatura, educati all’opposizione; e i nuovi che hanno un approccio più governativo ai problemi. Comunque tre espulsioni e tutto si rimette in ordine: il nostro popolo vuole il sangue, andate a vedere sulle pagine online del movimento. Anche perché se non ti trasformi per stare al governo, rischi di essere relegato in una posizione marginale».

Un «pragmatismo» che farebbe saltare sulla sedia Roberto Fico o la senatrice Paola Nugnes. Un approccio al governo completamente diverso da quello dei movimentisti. Prendiamo la Tav. Solito «caos» come sul decreto Sicurezza: Di Maio dice di no; Salvini dice di sì; Toninelli prende tempo. Patuanelli pronuncia il suo «no» disciplinato, ma lo accompagna con un ragionamento. «La Tav per me è inutile, da non fare», spiega. «Ma la Francia, direttamente o indirettamente, ha in mano la quota più consistente di Btp, del debito pubblico italiano all’estero. Una quota che potrebbe aumentare, se con l’accordo tra Unicredit e Société Générale, le Generali finissero completamente in mano francese. Solo che per impedirlo dovremmo sederci al tavolo con la Mercegaglia e i Benetton… ma come puoi farlo ora!?».

Già, non puoi se appena due mesi fa hai trattato i Benetton alla stregua di assassini per il crollo del viadotto Morandi. Appunto, sono le contraddizioni e i compromessi che ti impone il difficile mestiere del governare. E senza questa bussola rischi di soccombere o farti male. Può accadere sul decreto Sicurezza, se non imponi ai tuoi la disciplina e devi mendicare i voti della Meloni o di Berlusconi. Oppure, sul decreto anticorruzione dove, per pura demagogia, il ministro Bonafede punta ad abolire sostanzialmente la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, mandando su tutte le furie i leghisti che, invece, vorrebbero rivedere le incongruenze della Severino. O ancora, sui tagli alla spesa della Difesa, che non piacciono a Washington e su cui il sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo, si prepara a fare un doppio salto mortale. O infine, dopo tanto parlare contro la lottizzazione, vari delle nomine nei tg Rai, improntate a due soli colori, il giallo e il verde, negando per la prima volta uno spazio all’opposizione, lasciando di stucco anche un ex direttore che ha abbracciato la fede grillina: «Ti chiedono consiglio, ti ascoltano e poi fanno come gli pare!».

È evidente che con questa filosofia non si va lontano. I sondaggi dimostrano che l’atteggiamento dell’opinione pubblica sta cambiando. Secondo la maga Ghisleri dal 4 marzo i 5stelle hanno perso 7 punti percentuali, l’indice di gradimento di Di Maio è andato giù di 4 in una settimana e le sue politiche sono approvate solo dal 32,8% degli italiani. Se poi sommi la percentuale degli italiani convinti che il governo Conte non sia sulla strada giusta con quelli che pensano che non vada da nessuna parte, arrivi al 54,2%. Salvini, invece, in questi mesi è salito tanto (la Lega ora è al 31%), ma in una settimana l’indice di gradimento del vicepremier ha perso 2 punti. Motivo per cui i leghisti sono alla finestra, fiutano l’aria. Guardano alle previsioni del Pil che scendono e la tasso di disoccupazione che sale. E l’insofferenza verso il «caos» grillino sale. «Io – ripete da settimane Giancarlo Giorgetti – ne ho piene le tasche».

Se la parabola discendente dei 5stelle comincerà ad accelerare, rischiando di tirar dentro nel gorgo il Carroccio, il piano di Salvini, l’idea di rinviare tutto al dopo Europee, potrebbe anche cambiare. Un’aria annusata anche dal Cav e dai suoi, che hanno cominciato a sparare sul governo senza fare troppe distinzioni tra grillini e leghisti.

IL GIORNALE.IT

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