Minimarket, suk e bazar: Roma invasa da negozi stranieri

Aperti giorno e notte, spesso mecche della movida molesta, mini-market, suk e negozi stranieri hanno cambiato la fisionomia delle principali città italiane. Tanto che governo e amministrazioni locali si apprestano a correre ai ripari.

Fa già discutere l’annuncio del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, a proposito di un emendamento al decreto sicurezza e immigrazione che disporrà la chiusura dei negozietti etnici entro le 21. Un’iniziativa, chiarisce il vicepremier, “per limitare gli abusi e le irregolarità di alcuni negozi” come la vendita di alcolici in barba a regole ed ordinanze comunali. Ma non è solo il governo gialloverde a voler porre limiti ad un fenomeno che negli ultimi anni si è diffuso a macchia d’olio, approfittando talvolta anche delle lacune presenti nella legislazione. A Roma, ad esempio, il Campidoglio è stato costretto ad approvare una delibera che vieta per tre anni l’apertura dei cosiddetti “negozi di vicinato” all’interno del centro storico, dopo che le strade più suggestive della Capitale sono state invase da questi piccoli suk. Tra il Colosseo e l’Esquilino ce ne sono quasi 60, ci dice il proprietario di un mini-market della zona. Tanto che nella roccaforte dem del primo municipio di Roma, negli ultimi mesi, sono state già negate 130 aperture.

“Nelle città come Roma, Firenze o Venezia, a forte vocazione turistica questi fenomeni si sono sviluppati nelle maglie delle normative”, ci spiega Sabrina Alfonsi, presidente Pd del primo municipio di Roma. Dal punto di vista burocratico, comprenderne le ragioni è abbastanza semplice. “Nel centro storico i negozi di vicinato venivano tutelati ed è stata consentita quindi un’accessibilità maggiore”, continua la mini-sindaca. Tradotto significa affitti più bassi per i locali commerciali e pochissimi documenti da presentare per alzare la serranda. Basta aggiungere che “gli italiani certi lavori non li vogliono più fare” ed ecco spiegato perché, al posto delle botteghe storiche, sono fioriti centinaia di bazar (guarda il video).

Quello dell’imprenditoria straniera nel nostro Paese è un fenomeno in continua crescita. Nel 2017, secondo i dati della Cgia di Mestre, gli imprenditori stranieri in Italia erano 805.477, l’8,8% del totale italiano: il 2,5% in più rispetto all’anno precedente. A farla da padroni nel settore sono i cinesi, seguiti da marocchini, romeni e albanesi. “Si tratta di un fatto rilevante per la nostra economia, che non va demonizzato”, chiarisce il giovane direttore di Confcommercio Roma, Pietro Farina. Secondo la stessa organizzazione, “il 13% delle imprese iscritte alla camera di commercio della Capitale sono straniere”. In termini numerici si parla di 60mila aziende su un totale di poco meno di 500 mila, di cui 22mila sono imprese commerciali. I mini-market rappresentano il 15% di quest’ultimo segmento. Ma i dati più significativi sono quelli che riguardano le nuove aperture. Se il settore commerciale nella Capitale cresce del 4% annuo, per le attività straniere la percentuale schizza al 25-30%.

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A preoccupare Confcommercio non è l’intraprendenza dell’imprenditoria straniera in sé, considerata, anzi, una ricchezza per il nostro Paese, ma la sua declinazione in determinate forme. Quali? “Quelle che presentano un’offerta di qualità molto scarsa o un’incomprensibilità della proposta commerciale, come nel caso dei bazar che vendono di tutto”, spiega Farina. Un sottobosco nel quale, in alcuni casi, può nascondersi anche l’ombra del “racket”, secondo Nicola Franco, di Fratelli d’Italia, consigliere del VI Municipio di Roma. “Da indagini delle forze dell’ordine abbiamo appreso che, spesso, gli stranieri sono costretti ad indebitarsi per migliaia di euro con i loro connazionali già presenti in Italia – racconta – restituendo questi soldi con interessi ovviamente illeciti”. Questa ricostruzione ci viene in parte confermata anche da alcuni negozianti, che ammettono di aver ricevuto un prestito da famiglie originarie del loro stesso Paese.

Poi c’è il problema dei controlli. “Spesso le amministrazioni sono sotto organico e molti di questi negozi restano aperti anche quando non rispettano i requisiti di legge”, attacca. E nel caso in cui venissero riscontrate delle irregolarità, evadere le sanzioni è semplicissimo. “Chiudono l’attività e ne aprano un’altra – spiega Farina – il sospetto, ovviamente, è che la regia sia unica e che in alcuni casi siano delle vere e proprie organizzazioni a gestire decine di punti vendita”. Di qualche giorno fa è anche la proposta della Lega di vietare le insegne in arabo e in cinese per i negozi etnici. “Sicuramente aiuta nel dare informazioni chiare al consumatore, mi lascia un po’ perplesso rispetto alle altre lingue europee, cosa faranno obbligheranno le multinazionali a mettere le insegne in italiano?”, commenta il numero uno di Confcommercio Roma. Ma, questa volta, la proposta piace anche ad alcuni imprenditori stranieri. “È un atto dovuto nei confronti dei clienti, del resto siamo in Italia”, ci dice nel suo negozio di piazza Vittorio Emanuele un giovane commerciante cinese. La maggior parte dei suoi colleghi però preferisce ancora le targhe in mandarino.

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