Tria: ho giurato sulla Nazione Ma il governo vuole il 2,4%

D a una parte i partiti della maggioranza, affamati di denari da gettare in pasto ai loro elettori, nutriti fin qui di mirabolanti promesse.

Dall’altra il custode dei conti Giovanni Tria, che vede il rischio di sfondamento della linea Maginot di cui si è fatto garante in Europa e lancia l’allarme, ricordando che il governo, nel chiedere la fiducia alle Camere, ha preso «l’impegno di proseguire sul sentiero di discesa del debito» non per capriccio ma per «conservare la fiducia degli investitori, ma anche dei risparmiatori, perché dobbiamo difendere i risparmi degli italiani dall’aumento dei tassi». Sono i cittadini, in ultima analisi, che pagherebbero di tasca propria gli scossoni provocati da una gestione avventurista della prossima manovra, avverte il ministro. La resa dei conti sarà oggi, nel vertice finale Salvini-Di Maio prima del Consiglio dei ministri che deve fissare la cornice entro cui verrà scritta la legge di Bilancio.

E ieri, mentre Cinque stelle e Lega facevano rullare i tamburi di guerra e proclamavano la loro volontà di sforare la soglia del rapporto deficit-pil, con M5s decisi ad arrivare al 2,4% e Lega appena più prudente, il ministro dell’Economia (che vuole mantenerla sotto la soglia psicologica del 2%) ha inviato il suo solenne monito finale. Condito da una punta di perfidia: quando «con emozione» è diventato ministro, ricorda Tria, «ho giurato di esercitare le mie funzioni nell’esclusivo interesse della nazione, e non di altri. E questo giuramento lo abbiamo fatto tutti». E quel «e non di altri», buttato lì come per caso, è diretto a chi, come il principale partito della coalizione di governo, mette altre obbedienze prima di quella alla Carta. Come quell’oscuro «contratto» che lega tutti gli eletti a 5 stelle, a cominciare dal vicepremier Di Maio, a un’entità privata, la srl Casaleggio, che non solo incamera i lauti contributi obbligatori di deputati e senatori, ma detta anche regole e obblighi cui attenersi, spesso in barba alla Costituzione medesima: dall’obbligo di votare sempre e comunque la fiducia ad un governo presieduto da un grillino (che la regola valga anche nel caso del premier per caso Conte non è però chiaro) a quello di versare una penale di 100mila euro in caso di dissenso dalla linea del gruppo.

Ovviamente, sottolinea Tria, «ogni ministro può avere una visione di quale sia l’interesse nazionale, ma in scienza e coscienza bisogna cercare di interpretare bene questo mandato». E mentre Lega e grillini minacciano l’assalto alla diligenza dei conti pubblici, il ministro ribadisce la sua linea dei piccoli passi: le promesse dei partiti (che vanno, dice, «sotto l’etichetta di flat tax, reddito di cittadinanza e superamento della Fornero») verranno attuate, promette, ma solo «gradualmente». Sotto l’etichetta «flat tax», per ora, ci sarà solo l’ampliamento della platea di partite Iva al 15%. Sulle pensioni, Tria parla di misure per consentire una «staffetta generazionale», ma si guarda bene dall’evocare il mantra salviniano della «quota 100». Quanto al reddito di cittadinanza, sarà una sorta di rinnovato sussidio di disoccupazione finalizzato al reinserimento nel mondo del lavoro.

Bottino assai magro per chi, promettendo assegni di mantenimento a pioggia e pensioni gratis per tutti, ha vinto le elezioni e ora teme la delusione di chi si aspettava dall’oggi al domani un Paese dei Balocchi gialloverde. Ma l’albero degli zecchini non esiste, ricorda Tria. Che si dice comunque «ottimista» e assicura: «Io resto al mio posto, e cercherò di fare del mio meglio». Nonostante Di Maio e Salvini.

IL GIORNALE.IT

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