“Per noi eritrei l’Italia è una tappa. Scappiamo in Germania o Svezia”
Rocca di Papa (Roma) – Partiti gli ultimi sette eritrei della Diciotti. Quattro hanno raggiunto le diocesi di Brescia e Foligno mentre altri tre sono attesi in giornata a Benevento.
Ci resteranno o si daranno alla fuga anche loro? «Difficilmente». Nabil, eritreo, è a Roma da 5 anni, sbarcato dopo la strage di Lampedusa dell’ottobre 2013, da un anno vive dove capita nella capitale. Lui fa parte dei 400 profughi del Corno d’Africa, per lo più provenienti dall’Eritrea e dall’Etiopia, sgomberati a forza da via Curtatone, ovvero dallo storico edificio razionalista occupato abusivamente dai migranti. Un palazzo degli anni ’50 ex sede della Federconsorzi.
Da anni pendeva su di loro un’ordinanza di sgombero del Tribunale di Roma e, alla fine, la Prefettura ha dato esecuzione alla sentenza. All’alba tutti in strada. «Siamo rifugiati politici. Fra di noi c’è chi lavora con regolare permesso di soggiorno e chi ha ottenuto l’asilo politico. Tutti, comunque, beneficiari della protezione internazionale. Come ci ha accolto l’Italia? Lasciandoci senza un tetto. Ecco perché gli eritrei della Diciotti, appena è stato possibile, sono fuggiti». Secondo Nabil i 50 fuggiaschi starebbero già per varcare il confine con l’Austria e la Francia. Alcuni, probabilmente, ci sono già riusciti. Soprattutto attraverso il passaggio colabrodo del Brennero. Dove sono diretti? «Germania e Svezia. Lì hanno già parenti e amici e in quei Paesi sono meglio attrezzati per dare a tutti casa e lavoro», dice. L’eritreo, però, ha paura di parlare, teme di essere registrato. «Non ci fidiamo di nessuno. Abbiamo paura anche e soprattutto dei mediatori culturali. La maggior parte sono spie del governo eritreo, incaricate di portarci indietro. Ma noi nel nostro Paese non ci vogliamo più tornare».
L’ipotesi inquietante è che fra i mediatori che hanno fatto da interpreti al centro «Mondo Migliore» di Rocca di Papa ci fosse anche qualcuno legato alla maxi organizzazione che si occupa del viaggio. «Trafficanti senza scrupoli – continua Nabil – ma che sono incaricati di completare il percorso secondo il denaro pattuito alla partenza e che verrà saldato dai parenti rimasti a casa solo se giunti vivi a destinazione». Non è finita. Il sospetto peggiore è che fra gli eritrei (nessuno parla una lingua nazionale ma solo vari dialetti difficili da comprendere) ci siano anche cittadini etiopi che non godono del diritto di asilo. Come? Basta confondersi con gli eritrei, documenti falsi e false identità alla mano fin dai campi profughi in Libia dell’Onu. Alla base della migrazione, per loro, il problema del servizio militare e, ovviamente, la speranza di fuggire dalla fame: un ottimo motivo ma che non è previsto dalla legge per ottenere lo status di rifugiato.
A lanciare l’allarme, tempo addietro, l’ambasciatore eritreo a Roma, Pietros Fessahazion, il quale sosteneva che il 40% dei richiedenti asilo non sarebbero eritrei ma etiopi. Resta il fatto che nella capitale si aggirano centinaia di homeless con in tasca il permesso di soggiorno in quanto rifugiati. Sono sudanesi cacciati dai centri di accoglienza di via Scorticabove, «Casa della Solidarietà», e di via Cupa, centro Baobab, da tempo costretti a vivere in una tendopoli dietro la stazione Tiburtina. E gli eritrei di via Curtatone, scampati al mare e costretti a vagare per la capitale con la carta di soggiorno nelle mani. «L’Italia è un Paese di passaggio come la Libia – conclude Nabil -, ma senza torture». IL GIORNALE.IT