Figli, Crepet: “Senza i no non si cresce. I 13enni vivono come si avessero 18 anni”
Paolo Crepet, psichiatra e sociologo padovano, l’analisi delle nuove generazioni di genitori e figli: i primi che hanno abbandonato il ruolo di educatori e i secondi che bruciano le tappe vivendo a 13 anni come i 18enni del passato.
INTERVISTA AL PROFESSORE
Alunni e genitori picchiano gli insegnanti, professor Crepet cosa è cambiato di tanto profondo nella scuola italiana?
“Se tuo padre e tua madre non ti hanno mai detto un no da quando sei nato, il primo no che ti dice un esterno non lo accetti. L’educazione è una fatica che nessuno è più disposto a fare: coinvolge i genitori, i nonni, gli educatori, anche quelli fuori scuola a incominciare dall’ambito sportivo. E’ una generazione che non conosce più i sogni perché non sono state insegnate le passioni. A forza di dire di sì tutto diventa grigio, si perdono i colori. Tutto è anticipato rispetto a ieri, oggi a 13 anni fai la vita che una volta si faceva a 18. La società anticipa i suoi riti: prima maturi, prima diventi consumista. Oggi un ragazzino di 13 anni al telefonino si compra quello che vuole e questo crea una sproporzione, è una maturazione fittizia: non sei maturo perché sei su Facebook, ma se hai una tua autonomia. Oggi giustifichiamo tutto, non conosciamo i nostri figli, siamo abituati a non negare loro mai niente, a 13 anni le figlie fanno l’amore e non ci sono molte mamme che svengono alla notizia. Si consuma tutto troppo in fretta, anche la vita”.
È cambiata così tanto la famiglia italiana?
“Il problema è prima dei genitori che hanno sempre una responsabilità in più rispetto ai figli. Finché campi conservi una responsabilità nei confronti dei figli, anche quando sono adulti negli atti che faranno si rifletterà l’educazione che hai dato. Ma le cose sono cambiate improvvisamente. Una volta il diploma era più che sufficiente per lavorare, adesso non basta più una laurea. Hai un terzo della vita che è formazione e questo cambia la prospettiva, i bisogni, la necessità e anche i consumi. E perché tutto sia possibile, esige una famiglia che non è più educativa, ma economica. Il valore di una famiglia è passato da educativo a commerciale. I genitori da educatori sono diventati un bancomat“.
A proposito di educazione: alcuni licei classici cercano nuovi alunni puntando sul fatto che sui loro banchi non siedono immigrati, disabili
“Una vecchia storia che ritorna ciclicamente è la presunzione di essere una razza migliore. C’è qualcuno che forse si era illuso che fossero bastati i 50 milioni di morti dell’ultima guerra; invece ritorna a galla. Continuano a dire bestialità come la storia della razza bianca, ma questo non è un errore di un ignorante, questo nasconde un’ideologia che è quella di Hitler che pensava che Owens non avrebbe mai vinto le Olimpiadi perché nero. Quella è stata la prima rottura: Owens che vince davanti al Furher dimostrando che siamo tutti uomini, non differenti per colore ma per qualità. Un liceo che pensa di fare una sorta di scouting scegliendo così gli alunni è un liceo morto”.
Oggi c’è troppa violenza nella politica italiana?
“Quando non si hanno idee si danno cazzotti. In un talk-show il primo che si alza e si toglie il microfono segna un punto. È il non parlare che porta voti, oppure il minacciare il tuo prossimo. Più che aumentata, la violenza è ben comunicata.
Perché l’immigrazione fa paura?
“Perché siamo stati un paese che tranne qualche enclave nelle città portuali Venezia, non ha conosciuto la diversità. Ci sono mancati gli scambi e si scambia tra diversi e non tra uguali, milioni di italiani non sanno cosa vuol dire. E questo comporta una paura per tutto ciò che non è prodotto dalla tua terra. L’immigrazione è stata una selezione darwiniana, nel paesello dei cinque figli maschi andavano via i due con più carattere e più forza. In Italia, sono andati via i migliori. L’immigrazione aiuta un altro popolo: l’idea di mogli e buoi dei paese tuoi non funziona neanche con le vacche”.
Siamo anche un paese di depressi?
“C’è un fenomeno interessante: l’aumento del numero di parafarmacie e farmacie. Evidentemente va di moda la debolezza. La depressione è una grande metafora della paura del futuro, il depresso detesta il domani. Siamo depressi e ansiosi e cerchiamo da qualche parte di essere sedati nelle nostre ossessioni depressive e nelle nostre ansie”.
Dove è cresciuto Paolo Crepet?
“Sono cresciuto a Padova. Mio nonno Angelo Maria Crepet era un grande artista, amico di Amedeo Modigliani, avevano frequentato insieme l’Accademia di Venezia. Il nonno materno era un artista della ceramica. Sono nato dentro un atelier e questo mi ha dato una forza creativa, un’immaginazione straordinaria. Ho studiato a Padova, poi sono andato a Verona dove insegnava il più grande neurologo italiano, il professor Terzian che era amico di Franco Basaglia. Per tre anni ho lavorato ad Arezzo in uno dei manicomi cosiddetti aperti; sono andato in giro per il mondo e alla morte di Basaglia mi sono trovato da solo, ma il virus della sua grandezza mi aveva convinto che potevo farcela. È riduttivo dire che è stato solo un grande psichiatra: la grandiosità della sua idea non è stata tanto la riforma, quanto il suo ruolo strepitoso nella storia dei diritti dell’uomo, è stato il nostro Bertrand Russel. Non era scontato dire negli Anni 60 che ognuno ha gli stessi diritti indipendentemente dal nostro umore, dal nostro grado di follia”.
Come concilia l’autorevolezza dello scienziato col personaggio televisivo?
“Da trent’anni ho fatta tantissima tv di tutti i generi, dai tg ai talke-show, ho avuto un maestro come Paolo Limiti. È stato un esercizio importante, devi essere in breve tempo molto convincente. La tv se la usi come semplificazione è di grande aiuto. Parlare di Cogne è stato molto importante: quel delitto era la quintessenza della nostra cattiveria ed è stata questa ad attirare la gente. Bisognava parlare delle mamme che uccidono”.
Cosa le manca della Padova di ieri?
“Quella che mi manca è la nebbia, le giornate umide sotto i portici. Dal punto di vista umano mi pare sia diminuito il sorriso, l’ironia. Quel Veneto strepitoso di Signore e Signori, quel Gastone Moschin che si tappa le orecchie per non sentire e sorride della vita, faccio fatica a rivederlo. Metteva a nudo anche la nostra ipocrisia, che c’è. Siamo passati dalla conversazione al marketing perdendo il sorriso“.